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 2023  dicembre 20 Mercoledì calendario

Parigi, la Stein e le mille luci di Pablo Picasso


Per non dire che sono superflui. La sua leggenda è permanente, non conosce pause, se si pensa che ancora pochi anni fa per l’iniziativa “Picasso mediterraneo” vennero coinvolte circa settanta istituzioni museali da tutto il mondo. Picasso può essere oggetto di studio per una critica sistematica, oppure la sua “presenza” è talmente viva che la sua opera rappresenta ancora materia calda per un marketing dove cultura, arte e affari formano un nodo gordiano che non consente ancora di districare il pensiero critico dalle ragioni mercantili?
Parigi chiude l’annuale Celebration Picasso per il mezzo secolo dalla morte (1973-2023) con un trittico di mostre che compone un concerto di ragioni critiche diverse e, per così dire, aperte. La più importante nelle premesse, ma di fatto poco risolutiva sul piano della conoscenza, anche per un allestimento che non si muove in quello spirito tutto francese della clarté, era Picasso. Dessiner à l’infini allestita all’ulimo piano del Beaubourg, dove vengono presentate fino al 15 gennaio alcune centinaia di sue opere grafiche, con altre di contesto pittorico e scultoreo. Mostra, sulla carta, ricca di possibilità, ma molto “esibizionista”, quasi narcisista nella realizzazione (tante cose belle, ma debole l’evidenza costruttiva), forse perché si vuole demandare al grosso catalogo il compito di “illuminare” lo spettatore. Urge una digressione, che va ben oltre la mostra parigina trattandosi di un male ormai diffuso ovunque: i cataloghi delle esposizioni, pur necessari, non devono surrogare il “pensiero visivo” che ogni mostra dovrebbe esprimere proprio nella scelta delle opere e nel progetto di allestimento concepito con idee “critiche” accessibili al grande pubblico prima ancora di ogni cristallizzazione sulla pagina di un libro: una mostra che celebra un anniversario non può essere allusiva o ermetica; va bene chiedere allo spettatore un lavoro intellettuale, ma è con l’occhio e una immersione sensoriale che si innesca la comunicazione espositiva. Il fatto è che oggi sempre più spesso le mostre sono ancelle di cataloghi che, pur presentati come tali, servono alla critica per sfoggiare ponderose e concettose analisi che, talvolta, spengono ogni intuizione nata dal vedere. La mostra serve oggi per pubblicare una monografia che sul piano editoriale da sola non sarebbe remunerativa. Ma non è soltanto vanità intellettuale di critici che si arrampicano sulle spoglie dell’artista che sopravvive alla storia e sparge attorno a se l’aura del genio, è piuttosto una tara della nostra epoca, dove l’astrattezza del pensiero è diventata sinonimo di intelligenza.
Picasso e la routine. Sì, perché non passa anno che nel mondo non si tengano alcune decine di mostre sull’artista di Malaga. Naturalmente, è frutto di una rete di rapporti che l’Eredità Picasso ha su tutto il pianeta, probabilmente una delle macchine meglio oliate oggi nel campo del marketing culturale, cui non manca una efficace politica del gadget in vendità nei bookshop. La presenza di ninnoli estetici come fonte di sostentamento dei musei e delle mostre è una invenzione tipicamente americana soprattutto dal Dopoguerra. Una trentina d’anni fa, parlando con Federico Zeri, mi raccontava di essere stato uno dei primi ad allestire in un museo americano un piccolo negozio di libri e souvenir. «Fu il bookshop di un museo che ha reso di più in rapporto alla superficie dei suoi locali. Certo, bisognava darsi da fare: si scrivevano lettere, s’invitavano designer per fare segnalibri e altri gadget, borse di plastica, foulard coi disegni presi da antichi mosaici...». Mentre Zeri mi riceveva a Mentana, a Firenze era in corso la mostra Caravaggio. Come nascono i capolavori, curata da Mina Gregori, che prometteva rivoluzioni nel modo di leggere tecnica e immagini del grande pittore. Ma nel comunicato stampa si leggeva che «dagli splendidi dipinti di Caravaggio sono stati selezionati i particolari più significativi che contraddistinguono l’opera del grande artista quali: un canestro di frutta, il torbido viso di un giovane bacco, un gruppo di soavi giovani che fanno musica, il volto della vendicativa Giuditta, le frementi narici di un cavallo con cui sono stati foderati bellissimi oggetti». Quali? «L’elegante sottomano che renderà ancora più prestigiosa la scrivania su cui sarà appoggiato, completato da una serie di scatole portamatite e portaclips e da un originale portamatite di forma rettangolare colmo di matite dagli inquietanti disegni». A parte l’italiano traballante, voi capite che non c’è tanto da meravigliarsi se oggi il gadgettismo è l’anima del commercio delle esposizioni d’arte, cui corrisponde, in un estremismo di posizioni, l’intellettualismo dei cataloghi che accompagnano le mostre.
L’iniziativa che a Parigi interpreta con maggiore libertà di pensiero l’anniversario del drago spagnolo è senz’ombra di dubbio Gertrude Stein et Pablo Picasso. L’invention du langage al Musée du Luxembourg fino al 28 gennaio, a cura di Cécile Debray, presidente del Museo Picasso – sede dove fino al 7 gennaio si tiene l’omaggio assai singolare di Sophie Calle al padrone di casa con la mostra A toi de faire, ma mignonne (Dipende da te, tesoro mio). Si vuole mettere in luce la “radicalità poetica” della scrittura steiniana, soprattutto sulla scena artistica americana, ma considerando che essa cresce nel dialogo con la pittura e, in particolare, con Picasso durante gli anni europei. Alcune intuizioni della Stein da tempo sono fondamentali per comprendere lo sviluppo pittorico del maestro spagnolo, in particolare quando scrisse che Picasso era diventato un grande colorista soltanto dopo aver avuto un “periodo grigio”. Non era un’affermazione a effetto, tutt’altro, e poteva servire per comprendere in generale che cosa si celi dietro un grande colorista: per gestire il grigio, infatti, occorre una sopraffina sensibilità estetica, e quando si entra nel segreto della scala dei grigi, tanto da poter dipingere un quadro esclusivamente con quelle variazioni tonali, ecco che il resto viene da sé. Forse non è così automatico, però...
Il ritratto della Stein dipinto da Picasso nel 1906 da sempre è considerato un’anticipazione del cubismo, ed è lei nel Journal intime che tra le prime – l’altro ammesso nell’atelier era Apollinaire –, racconta l’effetto di Les demoiselles d’Avignon: «Linguaggio mirabile che nessuna letteratura può descrivere, perché le nostre parole sono dette in anticipo». Vale a dire che la cognizione che ci facciamo di ciò che vediamo è sempre ricondotta a qualcosa di pregiudiziale, e il quadro di Picasso apparteneva invece agli oggetti “mai visti”. Idea radicale, anche se, a Parigi da circa mezzo secolo si stava diffondendo un gusto esotico e, all’epoca del cubismo, avanzava un primitivismo aperto all’arte tribale. A palati colti come quello della Stein e dei sodali delle avanguardie nascenti – artisti, letterati, collezionisti, frequentatori del demi-monde cabarettistico –, le tracce tribali, ma anche il sotterraneo legame con visioni anticheggianti e, per Picasso, con gli affreschi della Spagna medioevale, non dovevano sfuggire.
Debray rapporta il “presente continuo” della Stein al “flusso di coscienza” del pensatore William James. Nella scrittura steiniana, in realtà, c’è più Picasso di quanto nello spagnolo emerga la traccia della scrittrice. Cosa che invece succede, nota Debray, con l’influenza della Stein sul pensiero musicale di John Cage o sulla danza di Merce Cunningham: «La citano come un mantra». Ed ecco che il passo successivo della mostra è mettere in scena il poi, anni Cinquanta e Sessanta. Gertrude Stein, grazie al ruolo di Cage e Cunningham, incide sul Living Theatre ed entra nel giro della controcultura newyorkese e del neodada di Fluxus. Significa forse che, per trasfusione sanguigna – nel senso, per così dire, che la memoria è il sangue del pensiero –, il linguaggio forgiato nella relazione con Picasso fa di lui l’ostetrico per altri (Rauschenberg, Warhol, Nam June Paik, che oltre alla Stein, guardano però anche a Duchamp). Il mantra fa sì che musica, teatro e arte visiva riappaiano come “fusione di discipline”: l’apporto più significativo, secondo Debray, della Stein che «innerva la minimal art e l’arte concettuale americana». Ripetizione e tautologia, ritmo e serialità, fino a Sol LeWitt e James Lee Byars. E se alla fine si ricadesse dentro lo schema di una “decostruzione cubista”, ecco che il fantasma andaluso verrebbe ad agitare la scena, magari nel sembiante teatrale del Pegaso di Parade.
Tracciare, come fece Barbara Rose, un ponte fra Wittgenstein, Stein e Robbe-Grillet non so se porti effettivamente alla reazione verso l’espressionismo astratto all’epoca imperante, oppure se non sia invece un modo per non prendere il toro per le corna. Che Bruce Neuman possa essere il più fedele interprete dell’eredità steiniana di un linguaggio dell’insistenza che destruttura la parola con la ripetizione e l’omofonia e genera un ibrido in perenne mutazione, dunque vivente, è un modo di adeguarsi all’ideologia di genere qui fin troppo “insistente” grazie alla omosessualità dichiarata della Stein: la foto degli anni Trenta, lei seduta e Picasso in piedi, è così “strana” da rappresentare un rebus visivo per la stessa identità di genere: se non sapessimo chi sono i due protagonisti dell’immagine potremmo pensare che si tratta della posa di due uomini, maschi esperti della vita, che trasmettono al fotografo quel segreto chiuso nei loro corpi.