il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2023
Bambi ha cento anni
Alla fine del 1923, cent’anni fa, due uomini ispirati danno sfogo alla propria creatività: il primo è Adolf Hitler, in carcere per il putsch di Monaco, che detta le bozze del Mein Kampf; il secondo è Felix Salten che dà alle stampe in Austria Bambi. Una vita nel bosco, non un libro per bambini, ma una cupa profezia sul destino degli ebrei e delle minoranze in Europa, caprioli pacifici – e matriarcali – circondati da gazze crudeli e uomini assassini. Non è un eden il prato di Bambi, ma «che cos’è il prato?», chiede il cucciolo, manco fosse un pesce di David Foster Wallace. «Lo scoprirai da solo». A suon di pallottole e cadaveri.
Per il centenario, Giunti licenzia una nuova edizione della favola nera di Salten, tradotta da Gabriella Pandolfo e illustrata da Fabian Negrin, pluripremiato artista argentino, di stanza in Italia.
Scrittore, ma anche sceneggiatore e regista, Salten all’anagrafe è Siegmund Salzmann (1896-1945), nato in Ungheria in una famiglia di rabbini ortodossi, ma cresciuto a Vienna, quando ancora l’Austria è Felix, come lui. Esponente dell’impressionismo con Arthur Schnitzler e Hugo von Hofmannsthal, apologeta di Marx e Trotsky, amico di Theodor Herzl (il fondatore del sionismo), Salten – da buon asburgico della pervertita Mitteleuropa di Freud & C. – alterna romanzi per l’infanzia a libelli pornografici, come Josefine Mutzenbacher, ovvero la storia di una prostituta viennese da lei stessa raccontata (1906), accusato di oscenità – ci sono episodi di incesto e pedofilia – e censurato a più riprese. Stessa sorte che capiterà, lustri dopo, al famigerato Bambi. Sono strani lassù, i germanofoni.
È il 1936 quando i nazisti mettono all’indice l’allora best-seller di Salten, bruciandone copie sulla pubblica piazza perché è «un’allegoria politica del trattamento degli ebrei». Una caccia al capriolo, non proprio lusinghiera. Eppure, sono quegli stessi nazisti che amano molto gli animali e primi al mondo a legiferare sulla loro tutela e salute. Hitler, vegano convinto, odia addirittura i cacciatori perché pavidi e smidollati a sparare a bestie indifese, idem Joseph Goebbels; viceversa, Hermann Göring ha una passione sfrenata per i cervi – e i leoni in famiglia, dentro casa – e si fregia del titolo di “guardiacaccia del Reich”, promulgando persino “un’etica venatoria”, tuttora all’avanguardia, che vieta le munizioni a pallini e le tagliole. La Germania è la patria (del culto) della foresta: l’ambientalismo viene insegnato a scuola elementare e ovunque si procede alla riforestazione, cacciando contadini e fattori. I cerbiatti sono più importanti; pure durante la guerra, quando il cibo scarseggia, Göring continua a pascere meticolosamente gli esemplari cornuti nella sua personale riserva, salvo poi abbatterli, ovvio, ma si rifiuta di farli morire di fame, tanto che un collega gli sussurra all’orecchio: «Se il Führer viene a saperlo, la vedo nera». Al che il “guardiacaccia” si arrende.
Il 1939, oltre allo scoppio della Seconda guerra mondiale, porta alla luce I figli di Bambi, il sequel di Salten – nottetempo fuggito dal nazismo – con protagonisti due gemelli, un maschio e una femmina, con cui si chiude l’originale, il Bildungsroman di un capriolo curioso quanto pauroso già nelle prime pagine, quando vede un topo morto, ucciso da una puzzola. Qui la morte è un tòpos, più che un topo, e il bosco una giungla quotidiana.
L’opera debutta con successo in America nel 1928; Salten decide una dozzina di anni dopo di venderne i diritti per due soldi – mille dollari – alla Metro-Goldwyn-Mayer, che poi li passa a Walt Disney, il cui cartone animato esce nel 1942: il film è primo per incassi al botteghino di quell’anno e tra i più iconici e fruttosi di tutta la storia Disney, quella Disney – altro paradosso nazista – tanto amata e venerata da Hitler & C., un fanatico di Biancaneve e i sette nani. Certo, il cartoon americano è edulcorato rispetto all’originale: Bambi, capriolo, diventa un cervo dalla coda bianca; sono eliminati i personaggi scomodi, come il cuginetto Gobo, “traditore” perché si innamora e fida negli esseri umani, diventando un “collaborazionista”; spuntano viceversa macchiette sovraniste consone alla fauna nordamericana. Disney ci ha anche fatto un sequel, nel 2006, dal titolo Bambi e il Grande Principe della foresta. E persino una recente serie tv turca angosciantissima, Anime false, ha come totem Bambi: così una madre iperprotettiva, ai limiti dell’ossessione psichiatrica, chiama la figlia.
Ma di che parla esattamente Bambi, l’originale? Di foglie filosofe, che si interrogano sulla vita e sulla morte; di specie pacifiche, come i caprioli; di mamme single che “possono solo aspettare” padri assenti e indifferenti (come diverrà, un giorno, Bambi); di vecchi principi scorbutici (“Devi imparare da solo. Addio”); di madri surrogate e vecchie. Al cucciolo, presto abbandonato, tocca crescere da solo: conoscere il mondo, la flora e la fauna, distinguere il temporale dall’autunno, l’odore dell’amico scoiattolo da quello dei suoi parenti, zie, cugini, fidanzate… E poi imparare a diffidare di “Lui”, l’essere (umano) dalla faccia incolore e senza peli, che altri – cani, pecore, cavalli, ma anche alcuni suoi simili cerbiatti – scambiano per un Dio buono e onnipotente, salvo poi diventarne schiavi e uccidersi tra di loro.
Così, a suon di carcasse e uccelli caduti, Bambi cresce. Tornerà la primavera, ma sua madre no. Verranno altre lotte, altri amori, altri inverni di miseria e povertà, gli stessi del signor Felix, morto in Svizzera nel ’45 alquanto Infelix.