La Stampa, 19 dicembre 2023
Questo spot è un film
Big che «fanno delle storie». Lunghe come quelle dell’ultima ondata di spot, che si presentano come autentici film in miniatura. Il trend pubblicitario natalizio di alcuni grandi marchi aziendali è puntare sui cortometraggi che raccontano delle vere e proprie storie. Non una novità in assoluto, naturalmente, quanto piuttosto l’ultima tappa rivista e aggiornata di un processo ormai di lunga durata nell’ambito del marketing postmoderno. Che fece ricorso allo storytelling durante i passati Anni 90 proprio per risolvere le crisi di alcune multinazionali (specialmente dello sport) non più in grado di essere attrattive, come avvenuto fino ad allora, semplicemente con la forza simbolica e identitaria dei loro brand. Di qui l’idea di realizzare commercial che raccontavano storie mettendo in secondo piano il marchio per trasformarlo in un elemento che poteva apparire quasi accessorio rispetto alla narrazione, e recuperandolo poi in coda o quale sfondo e contorno. Una scelta vincente, come ha mostrato l’evoluzione dei consumi.
Così, si potrebbe dire, a volte ritornano (o, per meglio dire, non se ne sono mai andati...), e a riproporli adesso sono svariate grandi imprese. All’insegna di un format che vuole posizionare il Natale 2023 – periodo per eccellenza di consumismo e acquisti – in un contesto di messaggi ancor più «natalizi» (nel senso del trionfo dei buoni sentimenti) ed emozionali, dove a farla da padrone sono giustappunto le narrazioni e le trame, come in una (mini)pellicola. Nella costruzione narrativa, resa mediante una serie di linguaggi tipicamente cinematografici, si ritrovano i segni e le specificità dei nostri tempi, a conferma della caratteristica costitutiva della pubblicità, quella di fare da rabdomante o specchio delle fasi storiche in cui viene progettata e diffusa nei circuiti comunicativi. E, a proposito del nostro spirito del tempo, insieme alle merci e ai prodotti (oppure ai servizi, come per la logistica distributiva «amazoniana»), i commercial si fanno forza della veicolazione di esperienze ed emozioni.
Come nella festive campaign di Amazon, intitolata La gioia di condividere, che racconta dell’intenzione di un’anziana – e vitalissima – signora di regalare alle amiche un cuscino, che consentirà loro (non facciamo spoiler...) di compiere una specie di viaggio a ritroso nel tempo per assaporare momenti vissuti che, dunque, non sono davvero perduti. Uno spot che si presenta, quindi, anche alla stregua di una formula narrativa alternativa della terza età nell’Occidente contemporaneo, dove la demografia certifica l’incremento incessante delle persone anziane. Unicredit porta in scena un aspirante chef, metafora del ruolo di supporto delle banche nel permettere ai talenti di esprimersi e coronare i loro obiettivi. Con lo spot La noce, Esselunga torna – dopo la precedente «pesca» politicamente assai divisiva – a raccontare storie di sentimenti (individuali e familiari) e quotidianità. Da angoli differenti, Lidl, Coca-Cola e Apple – il cui spot è interamente girato con un iPhone di ultima generazione – scommettono sulla «riscoperta» della gentilezza e della solidarietà, mentre i commercial di John Lewis and Partners e Disney parlano, a modo loro, di positività e diversity.
Sono tutti esempi di brand storytelling con cui una grande impresa immediatamente identificata dai pubblici (quello dei consumatori e quello mediale) punta a ottenere attenzione suscitando emozione. Ne deriva la conversione in brand emozionali (ed esperienziali) più che identitari, in sintonia con l’epoca in cui le identità si vanno vieppiù fluidificando anch’esse (a differenza di quelle stabili del passato). Accanto alla creazione di un legame tra il prodotto e il consumatore – ovviamente finalizzato alla vendita del primo –, il brand storytelling gioca sui tasti dell’empatia col target e della comunicazione di un pacchetto di valori considerato dalle corporation (al netto di alcuni stop recenti) come un valore aggiunto economico oramai irrinunciabile.
Questi mini-film, frutto di una creatività pubblicitaria che punta sull’effetto cinematografico (e impiega registi del settore), sono efficaci – come devono essere... – in una logica comunicativa ancor più che direttamente commerciale. Anzi, in un meccanismo di metanarrazione, perché portano i media a discutere e a creare dibattito nei loro confronti e, dunque, con riferimento al brand che si fa ambassador di un evento. Sono visivamente sofisticati, requisito indispensabile per farsi largo nella sovrabbondanza di offerte a disposizione di un pubblico dal palato sempre più esigente rispetto alla qualità delle immagini. Se ne discute tanto, la viralità della rete ne intensifica la circolazione e, pertanto, ne guadagna la promozione delle varie brand identity. In poche parole, i commercial cortometraggi funzionano, eccome. —