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 2023  dicembre 19 Martedì calendario

Intervista a Paolo Rumiz


Paolo Rumiz non cerca l’altrove. I suoi viaggi sono attraversamenti, scavi, indagini. Nell’etimologia di indagare, ci sono: una rete da caccia (indago), lo spingere (agere), il dentro (indu).
Più che spostarsi, da sempre, Rumiz s’inoltra: sa fare a meno della luce, del bagliore della chiarezza. L’idea fondamentale del suo nuovo libro, Una voce dal Profondo, è che per capire chi siamo, dobbiamo capire di cosa siamo fatti. Carne e spirito, certo, ma pure terra. Una terra che, scrive lui, «trema, erutta, soffia e si ramifica in mille cunicoli sotterranei». E che abitiamo e assimiliamo: le assomigliamo. «Ho scritto un libro sulla nostra identità geologica», dice a La Stampa, dalla sua casa in un piccolo villaggio sloveno, non lontano dal confine con l’Italia, e di cui parla sempre, senza mai dire il nome. E si è deciso a scriverlo, questo libro, quando ha sentito una voce (non un rumore, non un suono: una voce) che veniva da sotto – lui scrive «dal Sotto» -, da un vulcano spento: l’ha ascoltata e ha deciso di mettersi in cammino nell’Italia dei vulcani, delle miniere, dei fiumi sotterranei. È andato a Napoli, in Friuli, a L’Aquila, sull’Etna, sul Vulture. Un viaggio verso il giù, all’ingiù. «Invecchiare ti insegna a guardare sempre meno verso l’alto e sempre di più in basso, in cerca di tracce, come fanno i cani da tartufo», dice. Ha appena finito di cucinare broccoli.
Rumiz, il suo libro è uno shock culturale: noi ci diciamo di far luce e chiarezza, di spiegare e capire, e lei ci conduce nelle tenebre.
«Ho una tendenza al buio perché vengo da Triste e dal Carso, una terra piena di grotte, e fin da ragazzino ho assistito alla discesa di quelli che, sbagliando, chiamiamo “inferi”. Prima di sentire il lamento della montagna che ha dato avvio al libro, avevo visto, la stessa notte, lo Stromboli che eruttava, e quello spettacolo mi aveva ricordato le contrazioni del parto e il battere sistolico del sangue: era qualcosa di profondamente vitale e non di minerale. Poi, quando il fondo del vulcano ha cominciato a parlare, a mandare un lamento, mi sono detto che dovevo continuare ad ascoltare e dare al mio lavoro una chiave acustica, che consente di allargare il campo visuale rinunciando all’illuminazione e andando al contrario, verso una discesa speleologica nel nostro mondo».
Cos’ha scoperto del nostro mondo?
«Che è femmina: è Terra. Eppure, persino quando dobbiamo rammentarci lo stato di pericolo in cui versa, usiamo un termine maschile, “pianeta”, dimenticando che non abbiamo niente a che fare con l’aridità di Marte, Plutone o del povero vecchio Saturno: noi abbiamo a che fare con qualcosa di unico, che si manifesta nei terremoti, nelle eruzioni, ed è talmente unico che a Napoli sono tremila anni che la gente vive su un vulcano perché quel rischio vale la candela».
Questa preferenza del maschile serve ad alimentare un’illusione di invincibilità?
«Peggio. Rifuggiamo dalla nostra responsabilità verso nostra madre, così non ce ne sentiamo figli. Il disconoscimento della femminilità che ci circonda, peraltro, spiega la violenza sulle donne, che nel vecchio patriarcato avevano un ruolo forte e invece adesso sono sempre di più un elemento di consumo».
Non è spaventoso pensare che per rispettare qualcosa dobbiamo sentircene figli?
«Mi fa questa domanda perché la maternità, e tutto il femminile, nella nostra cultura, soffrono di una connotazione punitiva. Il cristianesimo di cui siamo imbevuti ha dimenticato che ovunque, nel mondo, la terra è madre. Pensi alla verginità della Madonna: l’abbiamo affrontata soltanto in termini teologici, ma la Madonna altro non è che una erede delle mille dee madri del nostro mondo mediterraneo (e non solo). Se esplicitiamo che la Madonna è la terra, il concetto di verginità cambia completamente».
E cosa diventa?
«Purezza. Che non ha niente a che fare l’astinenza sessuale, che ne è una sciocca banalizzazione. La purezza è l’unica forza che consente di far continuare la vita, perché solo una terra vergine cioè non avvelenata è in grado di prolificare. I Monti del Partenio, preludio di Napoli e dei Campi Flegrei, hanno il nome della grande madre precristiana che ci riporta al mistero della fertilità che, ancora, non ha niente a che far con la verginità come la intendiamo in senso catechistico».
Di Napoli ha raccontato soprattutto la relazione vitalissima con la morte. Ne ha compreso la ragione profonda?
«Io non so se posso dire di aver capito. Ho scritto un libro che seguiva vari filoni: mitologico meridionalista antropologico speleologico visionario acustico politeista. La comprensione razionale c’entra poco, e nemmeno mi interessa. Preferisco le visioni».
E al diavolo le cinque W.
«Forse non sono mai stato veramente giornalista: sono sempre stato più antropologo. La prima volta che me ne sono reso conto è stato trent’anni fa, quando è scoppiata la guerra nella vecchia Yugoslavia. Dopo essermi sfinito a viaggiare nella capitale per fare domande di carattere politico sul sesso degli angeli, ho preferito fermarmi nelle vecchie osterie dell’hinterland di Belgrado e lì ho capito cosa c’era di oscuro che fermentava nella pancia di quel Paese. Il viaggio diquesto libro è visionario, non cerca spiegazioni. Vede le reazioni, descrive il corto circuito che scatta tra il mio abbandono e le cose che mi circondano, che sono soprattutto il risultato di un gioco di contrasti»
E cosa le ha detto la pancia di Napoli sul grande contrasto tra vita e morte?
«Napoli ha una intimità con l’altro mondo che si accompagna a una vitalità difficilmente riscontrabile altrove. E allora uno si chiede: questa gioia vitale, si esprime e manifesta nonostante il pericolo, o proprio grazie al pericolo? Io credo grazie al pericolo. Come si spiega che proprio tra le doline, un posto mortifero, per secoli i sanniti e poi tutti i popoli appenninici hanno adorato proprio Mefite, la dea della fertilità? A me sembra la constatazione che una terra che si muove, che sfiata, che trema è non solo più interessante, ma anche e soprattutto più fertile, una terra che ti mette difronte alla normalità del ciclo della vita che noi abbiamo espulso, forse perché ci mette difronte a un fatto inevitabile: la morte. A Napoli hanno capito benissimo che la chiave di tutto è l’accettazione della morte».
E del resto del sud che dice?
«Che è frastagliato, ricco, diverso. Quando ho aperto la mappa geologica dell’Italia, mi sono detto: guarda che complessità, che policronia pazzesca abbiamo sotto i piedi. Non faccio un discorso scientifico, ma penso che siamo profondamente legati alla turbolenza sotto di noi, che certamente rappresenta un rischio ma è anche una fonte di vita».
Mi colpisce che lei dica a un certo punto: noi del nord non ne sappiamo niente. Chi è l’uomo del nord?
«Io sono un uomo del nord un po’ pentito. E vado a sud per rivoltarmi, uscire dai miei schemi e dalle mie transenne. L’Italia è l’espressione di due forti correnti, una che scende dal nord e una che sale dal sud. Quella che scenda dal nord è la corrente dell’ordine, della comprensione razionale, e quella che sale dal sud è una corrente spirituale, antagonista, che si scontra con l’altra ma dialetticamente la migliora. Io ho bisogno del sud così come molti meridionali credo abbiano bisogno di noi. Non mi piacciono al sud quelle isole di forte debolezza identitaria: sono stato a Matera e il mio pur ricco editore non ha potuto organizzare una presentazione del libro nei Sassi, per via dei prezzi da capogiro. Ho avuto la sensazione di un posto che ha solo venduto se stesso anziché indagarsi e capirsi».
Ha usato “capire”.
«Giusto, diciamo guardarsi. Io l’ho fatto: ho guardato l’Italia da sotto e ho incontrato moltissime persone che mi chiedevano a chi e a cosa appartenessi. Ho sempre risposto: alla terra dove il Mediterraneo finisce. Quando rivolgevo la stessa domanda, nessuno sapeva rispondermi».
Perché non studiamo com’è fatta la nostra terra?
«È opportunismo politico: dimenticare la fragilità dei nostro territorio conviene perché ci pone difronte all’evento in termini di emergenza. Lavorando sui terremoti ho visto che almeno dall’inizio del ’900 in poi, la memoria di questi disastri si cancella molto più velocemente nelle città, rispetto alle piccole località agricole dove la memoria è alimentata dai racconti, c’è un rapporto più diretto tra nonni e nipoti e una presenza più visibile della chiesa con processioni e riti».
Il racconto è più forte della scienza?
«L’approccio scientifico alla realtà non serve a niente, non ci mette in allerta, non ci connette al creato perché non ci emoziona. Una processione fa molto di più di una lezione di un divulgatore che spiega il perché di una alluvione».
Lei prega?
«Non prego: ringrazio per la bellezza, quando la incontro. E poi la racconto: tutti devono sapere che esiste».
Cosa ha capito del suo corpo in questo viaggio nella sua, nostra identità geologica?
«Che il nostro corpo è un sensore. E io non sono vivo su una terra che è un sismografo: io sono un sismografo».
Qual è la cosa che accomuna tutti gli esseri umani?
«Avere una madre». —