la Repubblica, 19 dicembre 2023
Conciati per le feste, il Canto di Natale di Fabrizio De André
Da quel giorno lontano diffido delle comete. Decisamente, quel primo Natale, il Natale dei Natali, non era nato sotto una buona stella. Cometa o no. Diciamo anzi che quella storia era cominciata male e tutto lasciava presagire che sarebbe finita peggio. Come poi andò.
Ma ancora prima della nascita del bambino, c’erano stati un bel po’ di casini. Quella ragazza giovanissima rimasta incinta in un modo a dir poco miracoloso, il marito anziano che torna dopo tanto tempo, costretto alla lontananza dal lavoro.
L’angelo, va bene, il miracolo, miracolo miracolo miracolo. Io credo ai miracoli, ne ho avuti, ci credo per forza, ma sempre mi lasciano anche molta inquietudine.
Passi la gestazione bella strana, ma stai per nascere e subito devi farti un viaggio assurdo perché un tiranno, l’Imperatore di un Paese e di un esercito di occupazione, decide che bisogna fare un censimento. Non trovi posto per dormire neanche a pagare, e – diciamolo – quella grotta, quanto ad attrezzature e comfort, somiglia molto a un ospedale di Gaza oggi, e più o meno siamo da quelle parti, del resto, poche decine di chilometri. Non c’è acqua cibo luce riscaldamento, non c’è niente di niente.
Arrivano in tre, tre personaggi stranieri importanti, ma sempre una piccola minoranza, a rendere omaggio, a capire che lì sta succedendo qualcosa di grosso che vale la pena vedere con i propri occhi al prezzo di un altro lungo viaggio. Ma si sa nessuno è Profeta in patria, e soprattutto quelli “strani” fin da piccoli piacciono a pochi e in genere da lontano. Arrivano, stanno giusto il tempo per scambiarsi i doni (li portano solo loro, ma la famiglia di Giuseppe ha ben altro a cui pensare che ai regali di Natale), poi se ne tornano via e tu rimani lì, e ti senti solo, anche quando le folle ti acclamano, quando vengono a cercarti per i loro problemi, quando trovi un gruppo di amici per la pelle, ma la pelle è solo la loro, da mettere in salvo appena si sente puzza di bruciato. La storia la fanno i vincitori, tu sei riuscito a farla da vinto, uno dei pochissimi, sì, eri strano forte.
Ciò che non uccide rafforza, no? E così il bambino – da quel Natale scombiccherato – cresce in fretta, i miracoli li fa davvero fin da piccolo, all’inizio poco più che giochi di prestigio per far colpo sui compagni, poi cose serie, moltiplicazione del vino e del cibo, guarigioni, resurrezioni addirittura. Scappa dai suoi già a dodici anni e va a fare il sapientone fra i Sapienti del Tempio. È una testa calda e finirà come sappiamo, giovanissimo.
Eppure la dolcezza del Natale – che c’è, c’è – la dolcezza del Natale è nel prima, il sabato è sempre meglio della domenica, l’abbiamo capito, e la vigilia di Natale è il giorno per eccellenza, la cena della Vigilia, la messa di mezzanotte.
La dolcezza del Natale la racconta Fabrizio De André ne La buona novella. E, appunto, sta tutta nel prima. Anticonformista con anticonformista, il Natale De André lo salta addirittura, non lo racconta, lo lascia immaginare (che l’immaginazione è sempre più bella della realtà), ma la dolcezza no, non la salta, anzi. E sta tutta nei genitori.
La dolcezza di Maria, la tenerezza soprattutto del vecchio Giuseppe che lavora come un mulo, si ritrova con una sposa troppo giovane, torna, la trova incinta (e spaventata, poteva nascerne un femminicidio bello e buono) e tutto diventa, appunto, dolcissimo più di un Pandoro.
Ci sono due voli nel racconto “natalizio” per eccellenza, quello de La buona novella. Il volo di Maria tra sogno e realtà in compagnia dell’Angelo e il volo molto più concreto sempre di Maria tra le braccia di Giuseppe.
Il primo volo: «poi, d’improvviso, mi sciolse le mani/ e le mie braccia divennero ali,/ quando mi chiese – Conosci l’estate —/ io, per un giorno, per un momento,/ corsi a vedere il colore del vento./ Volammo davvero sopra le case,/ oltre i cancelli, gli orti, le strade,/ poi scivolammo tra valli fiorite/ dove all’ulivo si abbraccia alla vite./ Scendemmo là, dove il giorno si perde/ a cercarsi da solo nascosto tra il verde,/ e lui parlò come quando si prega,/ ed alla fine d’ogni preghiera/ contava una vertebra della mia schiena».
Il secondo volo: «E lei volò fra le tue braccia/ come una rondine,/ e le sue dita come lacrime, / dal tuo ciglio alla gola,/ suggerivano al viso,/ una volta ignorato,/ la tenerezza d’un sorriso,/ un affetto quasi implorato./ E lo stupore nei tuoi occhi/ salì dalle tue mani/ che vuote intorno alle sue spalle,/ si colmarono ai fianchi/ della forma precisa/ d’una vita recente,/di quel segreto che si svela/quando lievita il ventre./ E la parola ormai sfinita/ si sciolse in pianto,/ ma la paura dalle labbra/ si raccolse negli occhi/ semichiusi nel gesto/ d’una quiete apparente/ che si consuma nell’attesa/ d’uno sguardo indulgente./ E tu, piano, posasti le dita/ all’orlo della sua fronte/ i vecchi quando accarezzano/ hanno il timore di far troppo forte».
Anche Giuseppe crede ai miracoli, e forse soprattutto ai sogni, la dolcezza di quel sogno che annuncia e preannuncia il Natale, il primo e comunque l’unico che conti per lui, la nascita del suo primogenito. Più Natale di cosi