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 2023  dicembre 18 Lunedì calendario

Intervista a Paolo Rossi


«Sono molto stanco. La giornata di ieri è stata una faticaccia, ma bella», dice Paolo Rossi. Alla sera, a Padova, è andato in scena Da questa sera si recita a soggetto. Il metodo Pirandello. E fin qui niente di strano. Ma prima c’era stato il matrimonio del figlio maggiore Davide. E questo sì che l’ha un po’ scombussolato. Trentenne, regista del Terzo segreto di satira, tre film e tanti corti all’attivo, moglie produttrice, un bambino, dei suoi tre figli è il primo a convolare. «Dopo anni di vita insieme – commenta papà Rossi – ha deciso di sposarsi “in nome della legge”. Ho scoperto che il matrimonio, con l’arresto, è l’unica situazione in cui si usa questa formula. Il che lascia aperto qualche dubbio».
Anche gli altri figli sono nello spettacolo?
«Giorgia è scrittrice: ha da poco pubblicato un libro Chissà se è vero. Storia forse apocrifa della nostra famiglia. Sono citato in copertina, ma l’ha scritto tutto lei, il mio apporto è solo orale: riporta le storie di famiglia che io le ho raccontato. Shoan invece è rapper, ma si offende se lo definisco così. Tutti attivi nel mondo dello spettacolo, ma fortunatamente nessuno ha seguito le mie orme».
Teatrante vero, sempre in tournée: che padre è stato?
«Attori sia io che sua madre Lucia Vasini, Davide è cresciuto in quinta, dormendo nelle ceste dei costumi: ha respirato teatro, ed è naturale che non si sia troppo allontanato. Per Giorgia sono stato un padre viaggiante e poco presente. Shoan, cresciuto dalla mamma, un giorno si è presentato a casa mia: vengo a vivere da te. Poi è scoppiato il lockdown e siamo rimasti chiusi per mesi sotto lo stesso tetto, a tutta musica: la sua, seppure con qualche interferenza mia (accettata) di classica e rock».
Si dice che è colpa degli insegnamenti sbagliati dei padri se misoginia e patriarcato resistono nelle nuove generazioni. Come risponde?
«Premesso che patriarcato e matriarcato mi fanno ribrezzo nello stesso modo perché espressione di forme di potere, penso solo di poter dire di aver dato un esempio di coerenza: recito (meglio) nella vita quello che predico sul palco. Come spesso capita a noi cantastorie, la mia vita è a senso inverso rispetto alla sociologia ufficiale. Detto questo, posso dire di saper riconoscere gli errori. E di cercare di porvi rimedio».
Una bella famigliona tripartita e allargata?
«Al matrimonio di Davide c’erano tutti. Noi “scavalcamontagne” la famiglia estesa la pratichiamo da almeno 500 anni prima degli “umani”, dei regolari. In realtà, però, di famiglie ne ho quattro: la quarta è la mia compagnia, i miei attori cui cerco di insegnare tutto quello che so. Loro famiglia, come il teatro è la mia casa. A casa mi muovo da ospite».
Il capocomico come un padre, quindi?
«Certo. Indiscutibilmente. Gestisce una dittatura allegra. È come il capitano di un vascello che gira il mondo: può portare in giro contenuti democratici, ma il governo deve averlo lui, se no si naufraga. Io capisco l’ammutinamento della ciurma, ma se arriva un’onda anomala mica fai un’assemblea: decidi, è il tuo ruolo. È su questo che si basava il nazismo: su gente che faceva cose orribili, ma si nascondeva dietro l’avere solo fatto bene il proprio lavoro ubbidendo agli ordini. Eh, no: la tua responsabilità non può finire lì. Vedo tanti aspiranti nazisti in giro, in tanti ambiti...».
Nello spettacolo dice di essere arrivato a Pirandello a causa della morte di Berlusconi: dopo di lui nella satira non ci sono più riferimenti. Va davvero così male?
«È impossibile fare la parodia di una parodia. In caso contrario, come diceva Jonathan Swift, rischi di diventare il buffone di corte. Oppure, come dico io, si crea il paradosso: non è Crozza che imita Meloni, ma viceversa è lei che imita Crozza. È un errore che nasce alla fine dello scorso millennio quando, sparito un certo tipo di intellettuale dopo Pasolini, i comici li hanno “surrogati”. Dopo di che, però, alcuni si sono anche dati alla politica: in Francia più di uno, in Italia, in Ucraina. Non scherzo quando dico che ognuno ha il governo che si merita».
In scena “si recita a soggetto” davvero?
«Buona parte. Ogni sera infatti si assiste a uno scatto in avanti, nostro e soprattutto del pubblico, che – come dico chiaramente – è davvero parte integrante dello spettacolo».
In che senso “scatto in avanti”?
«Faccio un esempio. C’è un monologo sulla gelosia e la violenza del maschio sulla donna: era una situazione che usavamo in prova come allenamento. Poi la sua attualità ci ha fatto decidere di inserirlo nello spettacolo. Ecco: due sere fa il pubblico è insorto, credeva a una lite vera, e comunque non sopportava quanto dicevo, quel crescendo di violenza e accanimento verbale. Il teatro fa uscire la parte oscura che è in ognuno di noi, ma così facendo le diamo corpo e possiamo esorcizzarla. Alla coppia che protestava, abbiamo dato il testo perché lo “giocassero” a casa. Anche perché poi c’è il ribaltamento dei ruoli a rendere tutto più chiaro».
Da dove le arriva la passione per Pirandello?
«Mio nonno era attore nella compagnia di Rosso di San Secondo che di Pirandello fu allievo e gli raccontava aneddoti sul Maestro. Lui li ha trasmessi a me. Nello spettacolo ci sono parecchie cose che arrivano da quei racconti, insieme a due anni di studio intenso».
Nipote d’arte, dunque?
«Negli anni 50 nonno ebbe una compagnia filodrammatica: erano palestre importanti allora, non solo per dilettanti ma anche per svelare il talento di futuri professionisti. Però, visto il precedente, in casa non si aspirava per me a una carriera d’attore».
Debutto in scena?
«A circa 4 anni, a Monfalcone, nel teatro del nonno: vestito da Napoleone. E non mi chieda perché».
Quando scoprì la vocazione?
«Nessuna vocazione. Ormai a Milano, universitario (fermo a due esami dalla laurea, prima perito chimico), per emanciparmi lavoravo come marionettista nella compagnia Colla che usava anche attori: a una scolastica uno si ammalò, l’impegno non mi parve soverchio e mi offrii di sostituirlo. Mi venne facile e mi pagavano pure: avevo scoperto come guadagnare senza lavorare. Solo dopo avrei scoperto che gioco duro è il teatrante. Come diceva Villaggio, è un lavoro per cui occorrono (nell’ordine): coraggio, talento, fortuna».
Lei li aveva tutti?
«Coraggio ne avevo. Fortuna anche: ho incontrato maestri veri: Jannacci, Cecchi, Strehler. Mi ricordo che iniziai contestandolo, poi scoprii che aveva più cose in comune con lui di tanti che mi si professavano vicini per ideologia, pensiero ed età. A un certo punto pensò che avrei potuto essere il nuovo Arlecchino: per un mese studiai con lui improvvisazione e mimica. Ma mi sarei chiuso per sempre dietro una maschera. Non me la sentivo di essere un solo personaggio per tutta la vita. Così mi fece fare Brecht».
Simula di morire in scena, (non per la prima volta): esorcizza?
«Di tutte le paure la morte è la numero uno. E il sogno di ogni attore fare la fine di Molière. Quanto a me, è il mio modo di prendere le distanze e insieme confidenza con un fatto che ci riguarda tutti».