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 2023  dicembre 18 Lunedì calendario

Crac Parmalat vent’anni dopo l’industria c’è ma parla francese


«Caro Maurizio Bianchi, Bank of America non ha alcun rapporto con Bonlat e l’estratto conto del 6 marzo 2003 che hai allegato è falso e nonproviene dai nostri uffici». Scoppia così, la notte tra il 17 e il 18 dicembre 2003, il bubbone Parmalat. Il fax è inviato dal funzionario della Bank of America Steve Sample alla filiale milanese della Grant Thornton, la società di revisione della società dellafamiglia Tanzi.
È l’inizio di un crac da 14 miliardi di euro che spaventò il mondo. La Parmalat di Calisto Tanzi era infatti una multinazionale del food, diversificata geograficamente dal Canada al Sudamerica, con marchi affermati sul mercato. Ma circondati da una finanza di carta. Il castello è crollato in poche ore, grazie all’intervento della procura di Milano (il pool di Francesco Greco con Eugenio Fusco e Carlo Nocerino e la consulenza di Stefania Chiaruttini) quando si è scoperto non solo che la liquidità di 4 miliardi era inesistente, ma tutta la contabilità del gruppo era falsa da almeno dieci anni, cioè da quando la società di Collecchio era stata quotata in Borsa.
I risparmiatori truffati
I principali artefici di questo disastro, che in quegli anni è stato paragonato alla Enron, sono stati Calisto Tanzi e il suo direttore finanziario Fausto Tonna, che per anni hanno alimentato una catena di finanziamenti basata sull’emissione di bond che attraverso le banche alla fine finivano nelle tasche dei risparmiatori comuni, almeno 38 mila, che hanno perso gran parte del capitale investito. Un duro colpo per l’immagine del mercato italiano e delle sue istituzioni di vigilanza che non hanno saputo evitare o prevenire una truffa di stampo planetario. Anche se negli anni successivi altri crac ancora più pesanti hanno colpito i mercati finanziari, basti pensare al fallimento di Lehman Brothers o allo schema Ponzi messo in piedi da Bernie Madoff. O al più recente fallimento della tedesca Wirecard. Di fronte all’enormità del buco – 14 miliardi di euro nel 2003 erano davvero tanti – la macchina giudiziaria si è messa in moto raggiungendo il terzo grado di giudizio in poco più di dieci anni. Nel marzo 2014 la Cassazione ha confermato il verdetto emesso in appello dai giudici bolognesi condannando Tanzi a 17 anni e 5 mesi di reclusione e Tonna a 9 anni, 6 mesi e 20 giorni. Ma tre anni prima, nel 2011, era arrivata l’assoluzione per le quattro banche estere, Morgan Stanley, Bank of America, CitiGroup e Deutsche Bank accusate dalla procura di Milano di essere state complici di Tanzi nel dare comunicazioni false al mercato per gonfiare il titolo Parmalat.
Con questa assoluzione svanirono le speranze dei 30 mila risparmiatori che si erano costituiti parte civile per ottenere un risarcimento a fronte del malaugurato acquisto dei bond. Oggi Tanzi non c’è più, il figlio Stefano una volta a capo del Parma Calcio lavora in Inghilterra, la figlia Francesca all’epoca alla guida dellasocietà del turismo Parmatour gestisce una struttura alberghiera a Padova. Mentre Tonna sta scontando gli ultimi anni di condanna attraverso un programma di volontariato ai servizi sociali nei dintorni di Collecchio, dove ancora risiede. Insommagli echi del grande crac ormai sono affievoliti ma resta un grande rammarico: la società ha avuto l’occasione di rialzarsi ma non ha saputo coglierla fino in fondo.
Il grande ristrutturatore, Enrico Bondi, entrato in Parmalat a dicembre 2003 dopo i primi scricchiolii sinistri che avevano messo in allarme le banche, è riuscito a salvare l’azienda dal baratro.
Bondi il ristrutturatore
Segno che dal punto di vista industriale i marchi avevano una loro solidità e i prodotti un buon appeal sul mercato. Con grande tenacia Bondi è riuscito anche a dare nuova linfa finanziaria alla società, intentando cause di risarcimento miliardarie verso le banche che avevano sfruttato l’azienda di Collecchio per incassare commissioni milionarie. Arrivando a creare una situazione paradossale: nel 2011 Parmalat funzionava come azienda, era in utile, e aveva al suo interno 1,4 miliardi di cassa frutto degli introiti delle cause alle banche. Insomma, un target perfetto per una scalata a debito. Bondi non si rese conto della vulnerabilità di quella situazione, voleva destinare la cassa in parte a rimborsare i creditori truffati e in parte destinandola ad acquisizioni in giro per il mondo. Ma non ebbe mai il coraggio di farlo e questo fu il suo grande limite, come ammise lui stesso: «La liquidità doveva servire a crescere. Parmalat doveva fare un salto dimensionale e non ci siamo riusciti», ha ricordato il manager nel 2011, ammettendo di avere avuto in mente «un progetto di crescita importante» non andato a buon fine: «Forse mi è mancato il coraggio di fare il passo. Penso che le cose uno riesce a farle oppure no e quando non riesce a farle ha perso», ha proseguito Bondi.
L’arrivo di Lactalis
L’occasione persa fu effettivamente grande, c’era la possibilità di creare un grande polo italiano dell’alimentare, erano stati chiamati la famiglia Ferrero e il gruppo Granarolo che aveva il sostegno di Intesa Sanpaolo. Ma nessuno dei due colse la palla al balzo, mentre lo fece il gruppo francese Lactalis della famiglia Besnier. Investì 4,5 miliardi a debito per comprarsi la Parmalat quotata in Borsa e poi ne ha estratto la liquidità vendendo propri asset alla società italiana, seguendo gli schemi classici dei leveraged buy out distampo anglosassone. L’incursione di Lactalis nel 2011 ha fatto così sfumare il sogno di un campione nazionale italiano dell’alimentare, segno che l’industria italiana nei momenti chiave non riesce a compattarsi e a perseguire un obbiettivo che tengaconto anche delle necessità del Paese. Elemento che contraddistingue invece l’economia francese, che da inizio 2019, una volta tolta la Parmalat dal listino di Borsa dopo sette anni di battaglie con i soci di minoranza, ha deciso di accorpare tutte lefunzioni manageriali a Laval, sede di Lactalis, svuotando il quartier generale di Collecchio. E facendo confluire Parmalat sotto Lactalis Italia che già controllava la Galbani, acquistata dai Besnier nel 2013 dai fondi di private equity.