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 2023  dicembre 18 Lunedì calendario

Meloni contro tutti

Sul palco di Atreju parla da leader di partito per 70 minuti, tra colpi di tosse e lunghi sorsi d’acqua e quando arriva alla fine e la platea intona «Giorgia, Giorgia» la fondatrice di Fratelli d’Italia mena ancora qualche fendente a sinistra e chiama il suo popolo alla battaglia delle Europee: «Non saranno le cattiverie e gli attacchi bassi e meschini a farmi mollare. Sono molto più resistente di quanto i miei avversari si aspettano e vediamo chi arriverà alla fine». Giorgia Meloni, giura, lascerà Palazzo Chigi solo quando lo vorranno gli elettori: «Non sono il genere di politico che si inchioda alla poltrona e tocca chiamare il fabbro... Solo gli italiani possono dire basta. Finché avrò il consenso degli italiani non ci sarà verso di liberarsi di me». L’enigma della candidatura alle Europee ancora non lo scioglie, eppure sembra già in corsa come capolista.
L’edizione del quarto di secolo della kermesse della destra finisce con l’inno nazionale. Giorgia Meloni, le lacrime agli occhi, indossa la felpa azzurra dei volontari e apre la campagna elettorale per il 9 giugno, «memorabile appuntamento con la storia». Un attacco via l’altro, in un crescendo che arroventa il tendone trasparente della stracolma tensostruttura montata sotto la Mole Adriana. Se l’arcangelo Michele sulla sommità del castello rinfodera la spada, lei la sguaina e sfida coloro che ritiene nemici, da Schlein a Conte, da Saviano a Ferragni. Rivendicazioni, titoli a effetto, battute in romanesco e attacchi contro la sinistra, i sindacati che hanno portato i lavoratori nelle piazze, il M5S e «la stampa militante e livorosa», cioè i pochi mezzi di informazione che non ha dalla sua parte. E se l’impressione è che la premier punti dritta al referendum confidando nel plebiscito a suo favore, lei smentisce affilando la voce in un acuto sarcastico: «Loro sognano di usare il referendum confermativo, dicendo Meloni come Renzi, per mandarmi a casa. Ma il referendum non è su di me, è sul futuro di questa Nazione. E stavolta quel futuro sarà nelle mani non dei partiti e dei poteri forti, ma degli italiani».
Il ritornello è questo. È il richiamo continuo al consenso per blindare il governo, è la costruzione del nemico che sta sì a sinistra, ma non ha solo il volto dei leader dell’opposizione. Ecco l’attacco a Chiara Ferragni, perché «gli influencer non sono quelli che fanno soldi a palate promuovendo carissimi panettoni facendo credere che si farà beneficienza». Ecco l’accusa a Roberto Saviano di raccontare non le storie delle forze dell’ordine ma quelle di «camorristi che fanno vendere molto di più e magari regalano il pulpito a New York da cui dare lezioni di moralità agli italiani, sempre a pagamento».
Le gridano «daje Giorgia» e lei risponde con «grazie, teso’». Ironizza sui 14 mesi di governo che le sembrano 14 anni, dice che sul palco di Atreju si sente a casa («io non sono sola») e ride delle allusioni a un ventennio meloniano: «Raga dai, su!». Per lei si chiude un anno «durissimo» e se ne apre un altro di sfide imponenti, come l’elezione diretta del premier, in cui si aspetta e forse spera di essere contrastata «con ogni mezzo, anche quelli non proprio legittimi». Quanto agli alleati di FdI in Europa, come l’estremista della destra spagnola Abascal, Meloni respinge lezioni dagli eredi di quei «comunisti e socialisti che 66 anni fa votarono contro il sogno europeo preferendo l’adesione all’internazionale socialista».
La voce è roca, ma la carica è tanta. Meloni se la prende con la «cara Elly» che ha disertato Atreju nonostante l’invito, ruba alla sinistra la citazione da Ecce Bombo di Nanni Moretti («mi si nota di più se vengo o se non vengo»), rimprovera a Schlein di non avere coraggio e di «insultare» chi ha deciso di partecipare: «Potrei fare l’elenco delle persone di sinistra che hanno sfilato su questo palco in 25 anni per dimostrare che non ci sono più i sani orgogliosi comunisti di una volta». Ringrazia Salvini e Tajani per «14 mesi di lavoro e amicizia» e soffia un «grazie» anche a Berlusconi lassù. Cita Tolkien, per promettere che non cederà alle lusinghe del potere. Parla di Caivano, per rilanciare la guerra alla mafia e alla camorra. E sull’immigrazione si dipinge pronta a pagare un prezzo in termini di consensi per dare un giorno «una risposta vera, strutturale e definitiva». Del Mes da ratificare non parla, delle difficili trattative sul Patto di stabilità nemmeno. Rivendica la manovra, perché «non è austerità ma serietà», si prende il merito di aver rivisto il Pnrr e accusa le opposizioni di «tifare contro l’Italia». Poi si scaglia contro Conte, il reddito di cittadinanza che abolirebbe altre «mille volte» e il «buco da 140 miliardi» del Superbonus: «L’autoproclamatosi partito dell’onestà ha finito per arricchire i disonesti». E se condanna l’«utero in affitto» come reato universale, certo non condanna il suo amico Elon Musk, che sul palco di Atreju è arrivato col figlio nato grazie alla gestazione per altri.