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 2023  dicembre 18 Lunedì calendario

La lite Paoli-Elodie

Le interviste si affidano al pubblico, moltiplicate dai siti che le riproducono a volte senza la cortesia o la decenza di citare la fonte, e il pubblico decide di cosa discutere. In Rete si discute da tre giorni se abbia ragione Gino Paoli, quando dice che «Ieri avevamo Mina e la Vanoni, oggi emergono le cantanti che mostrano il culo», o se abbia ragione Elodie, quando replica: «Ci sono artisti che hanno scritto capolavori ma nella vita di tutti i giorni sono delle m., io preferisco essere una bella persona».
Elodie non conosce Gino Paoli, altrimenti saprebbe che è una persona bellissima.
L’intervista è nata da cinque ore di conversazione, dalle otto di sera all’una di notte, durante le quali Paoli non ha mai nominato Elodie. Né tantomeno altre donne di cui si è parlato sui social. Credo volesse stigmatizzare un costume che non è solo italiano: giudicare un artista dall’apparenza, una cantante dallo stacco di coscia, un chitarrista dall’allure demoniaca, un attore dall’occhio ceruleo; perché con questo criterio non solo un Lucio Dalla, anche una Liza Minnelli o un Al Pacino non sarebbero mai venuti fuori.
Dagospia ha pubblicato una divertente collezione di meme e tweet dedicati alla vicenda. Un utente scrive: «Gino Paoli ha composto La gatta e Il cielo in una stanza 62 anni fa, e si cantano ancora. Quando il corpo di Elodie sfiorirà» (le parole non sono esattamente queste, il concetto sì) «nessuno ricorderà neanche il titolo di una sua canzone».
Sono ovviamente d’accordo sull’eternità dell’opera di Paoli; non sulla seconda frase. Elodie a mio avviso è un’artista bravissima. Ha una bella storia personale, irrobustita in periferia, arricchita dalle ascendenze creole della madre. Ha un bel corpo ed è del tutto libera di mostrarlo, come e quando decide lei. Le sue canzoni (la mia preferita è Andromeda) sono interessanti. Crescerà ancora, man mano che si affrancherà dalla cerchia Marracash-Mahmood che un po’ la definisce artisticamente e quindi la limita.
Dalle Papere alla Gatta Il paragone con Gino Paoli è privo di senso, come lo è qualsiasi paragone tra generazioni diverse. La modernità di Paoli nasce dal fatto di essere un precursore. La musica italiana, che negli anni politicamente bui del regime aveva creato canzoni stupende – da Parlami d’amore Mariù a Non dimenticar le mie parole —, negli anni economicamente fecondi del dopoguerra era diventata il regno dei papaveri e delle papere. Testi e musiche che magari esprimevano il ritmo dell’epoca ma non hanno retto al tempo, e oggi sembrano irrimediabilmente datate. Nel 1958 in quel mare piatto irrompe il ciclone di Volare (così l’uso ha ribattezzato «Nel blu dipinto di blu» di Modugno), a segnare l’inizio di quello che altrove si chiama sviluppo e da noi boom o miracolo.
Poi arriva Gino Paoli. Che canta una gatta in una vecchia soffitta vicino al mare, il cielo nella stanza viola di una prostituta. E, con l’aiuto di un altro genio, Ennio Morricone, inserisce nel memorabile attacco di Sapore di mare la dissonanza di pianoforte a indicare che nel 1963 qualcosa si è già incrinato, e non solo perché l’economia rallenta, ma perché l’illusione già si fa disillusione e la crepa che divide la società italiana è stata nascosta ma non ricomposta dall’improvviso benessere, che Paoli condensa in un’immagine: «Anche gli operai avevano le 1.500 lire per la Bussola e la Capannina». Oggi non ci sono più le lire, non ci sono quasi più operai, e soprattutto non ci sono posti paragonabili alla Bussola o alla Capannina.
Questo non significa che sia finita la musica.
Gli artisti da sempre si parlano, si ispirano l’un l’altro, a distanza di generazioni. I contemporanei guardano ai classici, Giulio Paolini e Michelangelo Pistoletto reinterpretano la Venere di Milo (che è più nuda di Elodie), Mimmo Paladino recupera il Rinascimento, che a sua volta aveva recuperato l’arte romana.
Per carità, quelle di cui parliamo sono solo canzonette, ma Elodie non è sola, ci sono molte artiste di talento, quasi tutte proposte al grande pubblico da quel rabdomante che è Amadeus, accusato ogni anno di immoralità dalla destra largamente maggioritaria nelle urne, eppure ogni anno primatista di ascolti con i suoi Festival. E se oggi Madame, Levante, Ariete, Annalisa raccolgono un’attenzione sempre più vasta, è anche perché 62 anni fa Gino Paoli aprì una strada con la sua coetanea Ornella Vanoni (nata un giorno prima di lui) e con Mina, entrambe dotate di una voce e di una bellezza del tutto nuove, mai ascoltate, mai viste.
I partigiani e le foibe Qualcuno ha attaccato Paoli, oltre che per il passaggio sul culo, per aver ricordato la sua iniziazione nei bordelli («maschilista», «puttaniere»). Occhio all’abbaglio. Paoli non appartiene alla generazione dei cantautori Anni 70, cresciuti in ambienti borghesi, che non avevano conosciuto la guerra, che quando i bordelli vennero giustamente chiusi andavano all’asilo, che la droga non la usavano o comunque – tranne Vasco – non ne parlavano. Paoli appartiene alla generazione precedente, che la guerra sa cosa sia. Quelli come lui giravano con la pistola, facevano a pugni con i malavitosi, provavano ogni droga arrivasse, cantavano spalle al pubblico, lo mandavano a quel paese, tentavano di suicidarsi e magari ci riuscivano. Semmai ancora qualche anno fa, più che dei culi, si sarebbe discusso del suo racconto politico: la famiglia della madre finita nelle foibe, il falso mito della liberazione di Genova, la maestra umiliata e assassinata dai partigiani; tutto ricostruito da un uomo di sinistra, che è stato pure in Parlamento per il Pci.
La verità è che gli artisti non si misurano con il metro della correttezza politica, altrimenti Michelangelo sarebbe solo un rissoso, Caravaggio un assassino, Céline un antisemita. Chi siamo noi per evocare e accostare al presente simili nomi? Siamo nanetti sempre più piccoli, che però sulle spalle di tutti questi giganti possono vedere più lontano che in qualsiasi altro tempo.