La Stampa, 17 dicembre 2023
Intervista a Neri Marcorè
Al posto dei libri, ora ci sono i quadri. Ma il risultato è lo stesso: Neri Marcorè torna a dare un’impronta pop al mondo della cultura, discettando di tele, sculture e musei in Art Night. Ogni mercoledì, in prima serata su Rai 5, l’attore e conduttore si mette la giacca buona ed entra nell’avveniristico studio virtuale di Via Teulada, lo stesso utilizzato anche dalla famiglia Angela. Qui, al centro di un gigantesco green screen, introduce i documentari d’arte, unendo alto e basso, ironia e profondità. Chi lavora con lui è entusiasta: l’attore non sbaglia una battuta, è sempre un «buona la prima», e dopo ogni ciak si ferma a scherzare con la troupe. «La verità è che mi diverto da morire», ammette con uno sguardo furbo Marcorè.La Bellezza può ancora salvare il mondo?«Non ne sono più così sicuro. La Bellezza continua ad avere un potere salvifico, ma noi siamo ancora in grado di riconoscerla, di distinguerla da tutto il resto? Ho i miei dubbi: il senso critico della società si è molto affievolito».Chi l’ha distrutto?«Le cause sono tante: la paura dell’impegno; lo studio considerato appannaggio per pochi; l’illusione di avere a disposizione la conoscenza solo perché è contenuta nei nostri telefonini; la conseguente idea che tutti possiamo fare qualsiasi cosa. Ormai siamo esperti su tutto e questo finisce per svalutare chi invece ha speso una vita per prepararsi ed essere competente».Per questo si limita a introdurre i documentari e non a spiegare personalmente le opere?«Esatto. Non sono un divulgatore e non mi propongo come tale. Se ho accettato questo impegno è proprio perché volevo imparare qualcosa sull’arte… sono io il primo spettatore, ma questo non glielo diciamo alla Rai (ride, nda)».Da piccolo quanto aveva in Storia dell’arte?«Andavo bene a scuola ma più che studiare l’arte preferivo farla: disegnavo, facevo sculture. Mio nonno era falegname, specializzato in porte e finestre, e con il legno che scartava mi divertivo a costruire dei giochi: fionde, macchinine. Una volta feci un cavallo in compensato vincendo addirittura un premio a scuola. Ero alle medie».Però poi scelse il liceo linguistico e, in seguito, si diplomò in interpretariato parlamentare. Non esattamente il percorso di un artista…«In un’Europa che si stava aprendo, mi sembrava che studiare le lingue fosse un buon viatico. La verità è che all’inizio non pensavo minimamente di fare l’attore. Sì, avevo fatto qualcosina, come per esempio La Corrida, ma non credevo di trasformarlo in un mestiere».Possiamo dire che lei è il primo concorrente allo sbaraglio ad aver sfondato per davvero?«Vinsi quell’edizione, ma da lì è uscito anche Gigi Sabani. Lui è il mio vero maestro: dal punto di vista delle imitazioni mi sento più figlio suo che non di Noschese. Sabani lavorava infatti molto sugli aspetti caricaturali, che non sull’immedesimazione: un approccio che mi piaceva. Grazie a Stasera mi butto svoltai: entrai nel mondo dello spettacolo da comico, ma subito mi allargai alla recitazione, alla musica, al doppiaggio».Nessuno storse il naso quando le affidarono «Un pugno di libri»?«No. La cultura funziona meglio se abbinata alla leggerezza perché diventa più intellegibile, immediata. Non esiste una tv alta e una tv bassa, ma solo programmi fatti bene e altri costruiti sull’idea che il pubblico si beva qualunque cosa. Il che può essere anche vero, in certi casi, ma non può mai diventare una giustificazione per abbassare il tiro».Come mai lasciò il programma?«Ho l’ansia di finire ciclostilato. L’automatismo uccide la creatività quindi tendo a fare poco di tutto, serie tv comprese: alla seconda stagione già scalpito. Amavo Un pugno di libri ma c’è un tempo di flessione in ogni cosa: ho preferito lasciare il programma quando era ancora all’apice».Ora c’è «La biblioteca dei sentimenti» con Maurizio De Giovanni. Che ne pensa?«De Giovanni è uno scrittore che ammiro molto. Mi spiace solo che la Rai non abbia avvisato gli autori di Un pugno di libri dello stop: dopo 20 anni di onorato lavoro, lo hanno scoperto dai giornali…».Questo governo sostiene la cultura?«Il problema di questo governo è che è spinto da una voglia di rivincita dopo anni dove la cultura è sempre stata considerata di sinistra. C’è una sorta di Nouvelle Vague politico culturale. Penso per esempio alle fiction su Mussolini, o le Foibe… Per carità, fanno parte della storia ed è giusto parlarne, purché si resti oggettivi. Mussolini avrà sicuramente fatto cose anche buone, come dicono, ma ne ha fatte di milioni orrende: il punto è non puntare i riflettori solo su quello che fa comodo. Quanto ai tagli, ci sono sempre stati, ma quelli alla scuola sono scandalosi».E la sforbiciata al canone?«La cifra era relativamente bassa, non andava tagliata anche perché c’è il rischio che si rinunci ai programmi culturali. La commercializzazione espone fatalmente alla banalizzazione».Con il nuovo governo ha perso la direzione del teatro delle Api che fondò a Porto Sant’Elpidio. Era troppo rosso per la nuova giunta?«Non so se mi definirei “rosso": forse è un tantino eccessivo. Comunque è stata una decisione politica, sì, ma anche legittima, sebbene non abbia portato a una svolta: il numero degli spettacoli in cartellone è lo stesso, con i medesimi artisti. Mi è spiaciuto solo per come è stato gestito il tutto: non mi hanno avvisato per tempo, ho dovuto chiedere io lumi a ridosso della stagione, e poi c’è stato tutto uno strascico di polemiche, qualcuno ha persino tirato in ballo Pino Insegno che invece non c’entra nulla».Ad aprile debutta da regista con «Zamora»: cosa ci può anticipare?«La storia si ispira all’omonimo libro di Roberto Perrone. C’è di mezzo il calcio, perché Zamora è il nomignolo affibiato al protagonista (Alberto Paradossi), ma è un racconto di formazione, umana e sentimentale, dove i personaggi femminili sono tutti moderni e risolti, a differenza da quelli maschili»