la Repubblica, 17 dicembre 2023
Una donna senza identità Un imperatore innamorato. Un rompicapo tra Oriente e Occidente Ora il mistero della storia è stato svelato. E la sposa ha un nome
Il timbro color carbone della Biblioteca Apostolica Vaticana si imprime austero sulla pergamena bionda dei quattro bifogli scintillanti di foglia d’oro e rutilanti di porpora sulla cui sobria, quasi misera legatura, che li raccoglie alla segnatura Codex Vaticanus Graecus 1851, la mano seicentesca del dotto e famoso bibliotecario Leone Allacci ha sommariamente annotato in latino il contenuto: un poema “in versi politici”, ossia nei decapentasillabi bizantini che sono la versione accentuativa dei trimetri giambici della tragedia classica, e che, segnala Allacci con qualche vaghezza, riguardano «un imperatore porfirogenito». Da allora e per secoli, come spesso avviene nei labirinti delle antiche biblioteche, nessuno aveva più scovato il modesto fascicolo; finché, nel 1886, non aveva attratto la curiosità di un giovane storico dell’arte, un borsista tedesco destinato a una carriera di studioso tanto interessante quanto politicamente imbarazzante: Josef Strzygowski, futuro autore del provocatorio Oriente o Roma (Orient oder Rom ), in cui avrebbe sostenuto le origini orientali, leggi ariane, dell’arte cristiana. Ma all’epoca il suo interesse per l’oriente non aveva ancora implicazioni ideologiche e di quell’esile quanto sontuoso reperto della Roma orientale, Costantinopoli, lo aveva affascinato l’enigma quasi insolubile: era certamente mutilo, i bifogli erano rilegati in falso ordine, era scritto in un idioma più vicino alla lingua greca volgare, il demotico, che al greco antico, e come se non bastasse era in versi. Un rompicapo. Ma Strzygowski aveva capito alcune cose, che pubblicò in un articolo apparso cinque anni dopo, nel 1901. Anzitutto, che le sue miniature raccontavano una vicenda fiabesca: quella di una principessa occidentale chiesta in sposa da un principe, non azzurro ma porfirogenito, ovvero nato nella porpora, l’erede al trono dell’impero più potente del suo tempo, Bisanzio.
La giovane principessa, mostrano le miniature, arriva per mare alla città dalle altissime mura costruite da Costantino e da Teodosio, dominata dalla grande cupola di Santa Sofia e da quelle delle altre chiese imperiali.Viene introdotta nel Sacro Palazzo delle Blacherne e tra vestiboli e sale e padiglioni, nell’addensarsi dei pigmenti policromi, nell’infittirsi dei tendaggi e dei drappeggi purpurei, nell’affollarsi dei copricapi cerimoniali, ogivali e a punta oppure alti e a tronco di cono, nello splendore dei diademi e dei paramenti, la giovane principessa dalle guance rotonde e dai grandi occhi avanza e ascende fino alla sala del trono, sul quale siede il promesso sposo. Il rito nuziale culmina con la sua trasfigurazione in augusta bizantina: transizione sacrale, oltreché confessionale, simbolicamente rappresentata dalla miniatura di un ponte, che riprende forse, quello che all’epoca sormontava il Corno d’Oro.
Ma chi è questa misteriosa principessa? L’incoerenza del testo, già lacunoso di per sé, la difficoltà linguistica, la struttura poetica e anche l’insufficiente conoscenza storica, necessaria a ricavare dall’iconografia delle miniature dati utili all’indagine prosopografica, hanno moltiplicato congetture e ipotesi che non sono però mai servite a sciogliere l’enigma. Fino a giovedì scorso, quando la sua soluzione è stata svelata all’Accademia di Ungheria, contestualmente all’annuncio dell’edizione del codice, che nel frattempo è stato minuziosamente restaurato e studiato e che sta per essere pubblicato in facsimile, con ricostruzione del testo e un impressionante corredo di saggi in quattro lingue, nella collana di Documenti e Riproduzioni della Biblioteca Vaticana (Fragmenta carminis picti quod dicitur Epithalamium (Vat. gr.1851),a cura di P. Schreiner, A. Németh, e V.Tsamakda). A sciogliere il mistero della principessa è stato Peter Schreiner, glorioso decano della bizantinistica, che l’ha identificata con Anna di Ungheria, figlia di Stefano V della stirpe di Arpad, all’epoca ventiduenne, andata in sposa nel 1272 ad Andronico II Paleologo, di solo un anno più grande, figlio del capostipite della dinastia, quel Michele VIII cui si dovette, dopo l’occupazione latina seguita al devastante sacco crociato del 1204, la riconquista di Costantinopoli nel 1261.
Andronico, pur non essendo ancora basileus a pieno titolo, era coimperatore fin da quell’anno, in cui la corte bizantina, dopo mezzo secolo di esilio nel piccolo dominio di Nicea, in Asia Minore, aveva fatto ritorno all’antica capitale in riva al Bosforo, recuperando la sua centralità geopolitica ma anche un enorme carico di difficoltà: interne, con il conflitto tra lo Stato centrale e i magnati provinciali che durante l’occupazione latina avevano sviluppato, in antitesi alla tradizione di Bisanzio, una sorta di potere feudale; ed esterne, con l’impero stretto tra l’espansione dei turchi osmani a oriente e dei serbi a occidente, cui si sommavano la minaccia angioina e la pressione delle potenze mercantili, Venezia e Genova, responsabili, rispettivamente, dell’occupazione latina e della riconquistabizantina, e in sanguinosa rivalità tra loro. Per non parlare dei problemi con il papato e del concilio di Lione per l’unione delle chiese, di cui Michele VIII aveva imposto le decisioni unioniste e che dopo la sua morte, nel 1282, fu sconfessato definitivamente dal figlio, approfondendo ulteriormente quanto inevitabilmente il conflitto politico e religioso tra Costantinopoli e Roma. Ma Andronico era affiancato da consiglieri come Teodoro Metochita e Niceforo Gregora, tra i più grandi intellettuali della storia bizantina. Il suo regno segna l’inizio della cosiddetta rinascenza paleologa, un’età di fioritura artistica e culturale che Bisanzio trasmetterà all’occidente dando vita a quello che chiamiamo “il” Rinascimento, ma che non è che l’ultima delle rinascenze bizantine. Se l’età dei Paleologhi fu un’epoca di prodigiosa attività culturale, se Costantinopoli ridiventò il centro intellettuale del mondo, se, come avrebbe scritto Bessarione, in questa fase della storia nessun occidentale poteva dirsi colto senza avere studiato laggiù, una buona parte del merito fu di quel principe ventitreenne, già circondato dall’alone sacrale della basileia, che accolse e amò come sua sposa Anna di Ungheria. Stando alle conclusioni di Schreiner, il manoscritto, rarissimo esempio dell’arte libraria profana della corte di Costantinopoli, fu prodotto immediatamente dopo il matrimonio di Anna, nel novembre 1272, come regalo personale per la giovane sposa, sorta di album commemorativo delle nozze ma anche di vademecum visivo dei costumi e del cerimoniale di corte, destinato a una giovane straniera che certamente già allora conosceva il greco ma forse non era ancora in grado di decifrare le raffinatezze retoriche del testo.
Può darsi che questo imprinting ricevuto da Anna al momento del suo arrivo a Costantinopoli l’abbia resa un’appassionata di libri. Fatto sta che anche le attività di copia e di produzione di manoscritti di lusso ripresero a pieno regime negli scriptoria costantinopolitani, dopo l’interruzione dovuta all’occupazione latina, proprio grazie alla diretta munificenza della famiglia imperiale sotto il regno di Andronico II. Che salirà al trono come unico basileus solo dieci anni dopo, subito dopo la morte di Anna, ma che è già raffigurato in tutto il suo carisma, insieme alla sposa ungherese, nel Vaticanus Graecus 1851.Come non sempre, anzi mai accadde alle altre spose occidentali dei principi Paleologhi, presto avvelenate, come Cleopa Malatesta, o costrette alla fuga come Sofia di Monferrato, per i dieci anni di regno che la vita le concesse Anna ebbe con il marito un’autentica storia d’amore e gli diede due figli di primo letto ai quali fu affezionatissimo. Ma anche questo fa parte della fiaba, anzi della storia vera emersa da quell’inesauribile giacimento di storie che è la Biblioteca Vaticana.