Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  dicembre 17 Domenica calendario

Intervista a Pierfrancesco Favino

Era alla Berlinale in febbraio con il poliziotto diL’ultima notte di Amore, a fine estate ha guidato alla Mostra di Venezia il sommergibile diComandante e ora consegna alle sale la Roma apocalittica diAdagio(distribuito da Vision). Pierfrancesco Favino fa il bilancio del suo intenso 2023 partendo dal personaggio nel film di Stefano Sollima, una leggenda criminale a cui la vita offre un’occasione di riscatto: salvare un ragazzino incastrato tra mondo di mezzo, politica e istituzioni corrotte.
Ci vuole qualche minuto per riconoscerla nel Cammello, smagrito, glabro, malato.
«Siamo partiti da ricerche sulla malattia, dopo ci sono state la perdita di peso, la prostetica: strumenti sempre più utilizzabili, con cui riesci a portare all’estremo quella che può essere una possibilità. Ma non mi piace che questo venga percepito come un virtuosismo inutile o un desiderio dell’attore di far vedere quante cose sa fare».
C’è un tormentone su questo suo trasformismo.
«Non mi dà fastidio. Ma se lo fa un attore americano chissà cosa pare, mentre su un italiano si scherza subito, invece che valutarne il lavoro. Non penso sia la mia unica cifra, i film usciti nel 2023 dicono il contrario».
Il rapporto con Sollima?
«Abbiamo fatto entrambi un percorso di maturazione. Adagio mi ricorda Mystic River o certi crime coreani che con il genere raccontano solitudini, amori malati».
C’è ancora l’idea di una serie su Ferrari di Sollima con lei protagonista?
«È un progetto di Stefano, non so se sta ancora in piedi».
Il caso “C’è ancora domani”?
«Conosco Paola da trent’anni, sono strafelice. Ma non mi piace l’idea che si associ Paola e cinema italiano: Paola sta facendo una cosa che va riconosciuta a lei. Sarebbe ingeneroso, visto quel che succede rispetto al racconto femminile, saltare sul carro del vincitore. Una delle cose più belle, se pensiamo ai film di successo quest’anno, è chesono fuori da ogni possibilità di previsione algoritmica. Significa che l’intuizione umana, creativa, dell’artista, incontra in modo magico un momento storico e le persone».
Gli spettatori vestiti da nazisti in sala per “Comandante”?
«Ne ho immaginato la delusione per aver sbagliato film. E me li sono visti nel ritorno a casa, la camminata nelle brume venete, la moglie che dice “lassia fuori gli stivali”, “’ttento co’ e pistole” e loro che rimettono nel cellophane un’inutile maschera.
Sicuramente c’è stata una lettura preventiva del film, che non ha nulla a che vedere con la creatività degli artisti».
I registi di “Quasi amici”, Nakache e Toledano, la inseguono per fare un film con lei.
«Anche per questo dico che dovremmo essere più consapevoli di ciò che il nostro cinema fa, quando esce agli schemi. Ho girato la serie francese Montecristo perché i registi mi avevano visto inIl traditore, Nostalgia, L’ultima notte di Amore. A volte ci svalutiamo da soli».
Ha girato “Callas” di Pablo Larrain, con Angelina Jolie.
«Abbiamo fatto una sorta di provino di un’ora a Roma, lui aveva in mente, credo, un po’ di attori. Il set è stata un’esperienza bella condivisa con Alba Rohrwacher, Valeria Golino, i costumi di Massimo Cantini Parrini»
Come cambia il cinema italiano?
«Il cinema è fatto dalla sala, da quello che c’è sullo schermo e dal pubblico.
È cambiato molto il pubblico, ma anche la comunicazione del cinema: stiamo sempre di più raccontando solo il costume. E invece c’è un pubblico giovane che conosce ed è curioso. Una delle pagine più belle degli ultimi giorni è stata la vittoria della Coppa Davis di due ventenni che hanno giocato come non giocano gli italiani: con una precisione, freddezza, lucidità che hanno poco della nostra tradizione. Ci abbiamo messo quarant’anni».
Lei si è sempre speso per la sua categoria. È successo alla Mostra di Venezia sui ruoli agli italiani, con una grande polemica.
«Fa parte del mestiere prendere delle posizioni, se vantaggiose per un’intera categoria. Poi questioni complesse vengono ridotte a titoli beceri, per fare clic, una deriva che non mi piace. Ma non mi piego all’idea che non si possa più parlare con gli altri».
Il lavoro e le figlie crescono.
«Il centro della mia vita sono loro. Se dovessi scegliere non avrei dubbi.
Con Anna (Ferzetti ndr.) ci diamo il cambio. Essere genitori è il centro della vita, costruire la libertà delle nostre figlie».
Voglia di commedia?
«Continuo a pensare di essere un attore comico, che ci sia questo errore di fondo. Nulla vale come le risate del pubblico a teatro».