Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  dicembre 17 Domenica calendario

Fiumicino, 50 anni fa la strage dei terroristi che nessuno ha punito


In quel tempo il Medio Oriente era nella vita di tutti. Il giorno prima, la crisi petrolifera provocata dalla guerra dello Yom Kippur aveva lasciato l’Italia senza auto, avvolgendo la domenica nel silenzio dell’austerity. Il lunedì invece Fiumicino è stato sconvolto da una battaglia infernale: la mattina del 17 dicembre di cinquant’anni fa un commando palestinese ha attaccato l’aeroporto. Sono state assassinate in modo atroce trentadue persone e altrettante ferite; distrutto un Boeing americano; dirottato un altro velivolo di linea tedesco. È stato il più feroce attentato del terrorismo internazionale nel nostro Paese, che ha fatto precipitare l’intera nazione in un Natale di paura. Ma è stato completamente rimosso dalla memoria collettiva.
I cinque guerriglieri sono stati rilasciati dopo pochi mesi e nessuno li ha mai cercati. Non c’è mai stato un processo; non si conoscono esecutori, né mandanti. Eppure si tratta di un momento di svolta della nostra Storia, che ha alimentato accordi mai confessati con l’Olp – estranea all’eccidio – e con altri potentati arabi: una trattativa che ancora tormenta la ricerca della verità su quella stagione di piombo.
La dinamica è agghiacciante. Il gruppo di terroristi arriva a Roma con un volo da Madrid, imbottito di armi e bombe. Cominciano a sparare nel terminal e prendono in ostaggio diversi agenti, uno dei quali ferito: un’onda di panico travolge turisti e personale. Poi irrompono sulle piste. Il finanziere ventenne Antonio Zara impugna la pistola e li affronta. Viene abbattuto con una raffica: la foto del suo corpo a terra scattata da Elio Vergani è diventata un’icona del coraggio, premiata con il Pulitzer. Tre uomini si dirigono verso un aereo statunitense della Pan Am in attesa di decollare per Teheran e scagliano tre granate nella fusoliera: i sedili vengono inghiottiti dalle fiamme, tra le pallottole i passeggeri si lanciano fuori dall’uscita di emergenza. In trenta muoiono nel rogo. C’è una bambina di nove anni, Monica De Angelis, con i genitori; tre sottosegretari del governo marocchino; parecchi vacanzieri americani.
I miliziani non si fermano: salgono su un jet Lufthansa con i mitra spianati, caricano a bordo nove ostaggi e obbligano l’equipaggio a prendere il volo. La prima tappa è Atene, dove chiedono alle autorità greche di rilasciare due giordani arrestati dopo un attentato. Minacciano di uccidere gli ostaggi e cominciano a simulare le esecuzioni, sparando a vuoto. Poi si infuriano e ammazzano a bruciapelo Domenico Ippoliti, un caposquadra bagagli romano: il cadavere viene gettato sulla pista. I due detenuti arabi però si rifiutano di unirsi ai sequestratori, perché non riconoscono la loro formazione, mai identificata con esattezza. A quel punto l’aereo riparte. Cerca di scendere a Beirut, ma gli negano il permesso. Atterra a Damasco, fa il pieno e va in Kuwait. Lì il commando si arrende e viene rinchiuso in una base militare.
L’emirato non sa che fare. Tutti, in Europa e nel mondo arabo, temono le rappresaglie: la prassi delle bande armate era prendere di mira le nazioni che arrestavano i loro militanti. L’Egitto di Sadat offre una soluzione. Si fa consegnare i cinque con l’obiettivo di processarli per conto dell’Olp di Arafat: vengono accusati di “un’operazione non autorizzata”, compiuta per screditare il movimento palestinese. La loro prigionia dura una manciata di mesi: nel novembre 1974 i loro commilitoni si impadroniscono di un jet britannico e ne ottengono la liberazione. Da quel momento spariscono nel nulla, non c’è certezza neppure sui nomi.
All’indomani del massacro, emerge che la protezione di Fiumicino era approssimativa: c’erano solo otto agenti con un addestramento specifico. Nonostante pochi mesi prima fosse stato sventato un altro attacco e a giugno fossero stati fermati a Ostia due terroristi armati di missili anti-aerei, non erano stati presi provvedimenti. Dopo l’assalto, tutti gli scali internazionali vengono militarizzati per mesi dai reparti meccanizzati dei carabinieri con sacchetti di sabbia, mitragliatrici e mezzi corazzati. Dietro il fumo del Boeing incendiato sulla pista, si intensificano però altre manovre avallate dal governo e condotte dai servizi segreti per imbastire un accordo con l’Olp e con altre sigle palestinesi. Viene chiamato il “Lodo Moro”, anche se in realtà è stato opera di più ministri: in cambio della promessa di non mettere a segno attentati nel nostro Paese, viene concessa libertà di movimento lungo la Penisola per colpire altrove. Se qualche fedayn veniva sorpreso dalle forze dell’ordine con mitra e bombe, gli 007 si occupavano di rimpatriarlo. I due miliziani arrestati a Ostia erano già stati riportati in Libia: subito dopo il bimotore Argo 16 usato per questo trasferimento era esploso in volo, si ipotizza per un sabotaggio del Mossad israeliano.
Il custode di questo patto è stato il colonnello Stefano Giovannone, capocentro dei Servizi a Beirut. Le sue informative sono ancora classificate, anche se parlamentari e studiosi le hanno potute leggere, e vengono spesso citate da chi propugna piste alternative alla strage neofascista di Bologna o evoca lo scenario della bomba per il dramma del DC9 di Ustica, entrambe del 1980. Un vortice di trame, che ha depistato e confuso, fino a negare ogni verità per l’eccidio di Fiumicino e cancellarne persino la memoria.