Corriere della Sera, 17 dicembre 2023
«Per portare Maradona in tv gli regalai le musiche dei Puffi
Marino Bartoletti, il suo ultimo libro «La Partita degli dei» è dedicato a Gianluca Vialli «che ci ha insegnato la gentilezza persino nell’addio». Trova che sia una qualità sottovalutata?
«È rara. E per questo siamo costretti a prenderne atto quasi con stupore. Nel caso di Gianluca, si sentiva tutto l’influsso educativo della sua famiglia nella gentilezza, l’educazione, la simpatia. Lui ci aveva aggiunto la cazzaggine: era un ragazzo meraviglioso».
Il suo, di influsso educativo, come è stato?
«Devo tutto ai miei genitori, entrambi erano sarti: Maria e Gualtiero. Mi hanno insegnato ad apprezzare ogni conquista, la prima bicicletta, la prima racchetta: cercare di meritarmi le cose è sempre stato il mio percorso di vita».
Sua madre voleva una bambina.
«È vero, ma invece di Benedetta sono arrivato io: almeno ero senza baffi. Da buona sarta, mamma aveva già preparato tutto il corredo rosa, con pizzi e cuffiettine che indossai per tutto il primo anno di vita».
Il suo ricordo più vivo dell’infanzia?
«Se parliamo di un ricordo sportivo, è legato al mio concittadino Ercole Baldini che dal 1956 al ’59 è stato il più forte ciclista del mondo. Per celebrare il Mondiale su pista entrò dalla porta nord di Forlì in piedi su una Fiat cabriolet 1400 e io vidi Apollo su un carro di fuoco: quel momento forse mi ha segnato al punto da dire che un giorno certe emozioni mi sarebbe piaciuto raccontarle».
Dunque un aneddoto ciclistico e non calcistico?
«Il ciclismo è stato e resta lo sport più amato. Ma anche sul calcio ho un ricordo particolare. Non avevo neanche sei anni, mio padre mi portò per la prima volta allo stadio. Sa come si chiamava il mediano destro del Forlì, ormai a fine carriera prima di iniziarne un’altra più soddisfacente? Sandro Ciotti! Mica male come “premonizione” di quella che sarebbe stata la mia vita»
La passione per la musica arriva prima di sport e giornalismo?
«Sì, l’ho presa proprio da mio padre che era un ottimo polistrumentista ed era ambitissimo da tutte le orchestre di liscio in Romagna. Io suonicchio ancora la chitarra, ma fino a “Quelli che il calcio” questa passione l’ho tenuta per me: lì mi presi lo sfizio di invitare tutti i miei idoli degli anni 60».
In cosa si sente romagnolo?
«Il profumo della piadina è ancora un richiamo ancestrale. E poi credo di riflettermi nella operosità e nella serietà dei romagnoli, soprattutto quelli di terra. Quelli di mare sono molto più divertenti, mentre all’interno siamo più abituati a tenere dentro di noi i nostri sentimenti».
Nel ’68 inizia a lavorare: cosa sognava?
«Sognavo il Guerin Sportivo, avevo già il prurito alle mani e la Lettera 32: se penso a quanti posti nel mondo ha visto quella macchina per scrivere, penso di aver realizzato quel sogno. Sentire quel ticchettio mi dà ancora un colpo al cuore quando mia nipote mi chiede di giocare con le vecchie “tastiere”».
Ha avuto un mentore?
«Aldo Giordani mi notò per la rivista Pressing che facevo da solo a Forlì e mi disse di andare a Milano a parlare con Gianni Brera, direttore del Guerino. Andai in stazione, inseguito da mia madre che mi chiedeva cosa ci fosse a Milano che non c’era a Forlì. Risposi che “c’era la Madonnina, mi assisterà lei”. Si tranquillizzò».
Come inviato dell’Occhio di Maurizio Costanzo fu anche arrestato.
«Dopo gli anni da inviato al Giorno, subii il fascino di via Solferino, ma Costanzo se ne andò dopo poco e rimasi disoccupato. L’arresto, per errore, fu a Montevideo al Mundialito di fine 1980: capitai in mezzo a una rissa nel tunnel degli spogliatoi e un ufficiale pensò di aver preso un calcio da me. Mi portarono in una specie di prigione: dovette intervenire l’ambasciatore».
La disoccupazione come finì?
«Palumbo mi chiamò in Gazzetta, ma rifiutai per fare sei mesi alla Rai di Milano, dove nessuno voleva curare i collegamenti con il Processo del lunedì: seguii i Mondiali del 1982 da freelance, ma subito dopo tornai al Guerino come inviato e mi fu proposta la conduzione del Processo».
Fu la svolta?
«Sì, perché capii di poter stare in tv con serietà, competenza e un pizzico di ironia. Da lì andai alla Domenica sportiva».
Maradona, Platini, Zoff, Scirea, Paolo Rossi. A chi è più legato?
«Forse quello che ho amato di più per la sua fragilità è Maradona: lo conobbi durante i Mondiali del 1978 in Argentina, a cui lui non partecipò; lo ritrovai nel 1984 in una tournée della Nazionale di Bearzot a New York e gli portai la maglia del Napoli per fare lo scoop, dato che era in procinto di lasciare Barcellona. Nacque un’amicizia molto importante».
L’accesso ai campioni era molto diretto?
Ciotti mediano
A 5 anni papà mi portò allo stadio di Forlì: il mediano della squadra era Sandro Ciotti, ormai a fine carriera, prima di diventare giornalista. Fu una premonizione
«Chiamavo Diego a casa e se non rispondeva chiamavo Bruscolotti, perché lo avvertisse. Quando ero a Mediaset accettò un’intervista per Pressing “solo per amicizia”. Ma c’era un prezzo da pagare: una audiocassetta in anteprima con le sigle dei cartoni cantate da Cristina D’Avena, dai Puffi a Kiss me Licia».
Momenti negativi ci sono stati?
«Ricordo quasi con dolore la mia direzione a RaiSport. Avevo già ideato “Quelli che il calcio” quando ricevetti la chiamata di Letizia Moratti. Cominciai con tanto entusiasmo, però dopo due anni e mezzo la cosa finì e capii che era meglio non fare domande: semplicemente il vento era cambiato».
«Quelli che» cosa rappresentò?
«Forse la cosa professionalmente più bella che ho mai fatto, almeno in tv. Una creatura che ho difeso in culla, quando nessuno la voleva condurre: chiedemmo anche a Dario Fo, ma Franca Rame ci rispose indignata. Si arrivò a Fabio Fazio per eliminazione: lui fece la fortuna della trasmissione e viceversa».
Il grande romanzo italiano è la Nazionale di calcio o il Festival di Sanremo?
«Per me è come scegliere tra papà e mamma, ma dico il Festival, perché quando vado a Sanremo vado a Disneyland. Diffido di chi diffida di Sanremo, perché vuol dire non riconoscersi nello specchio della nostra società».
Lucio Dalla la chiamava Bartolino?
«Usava un soprannome per tutti e quando voleva fare l’asino mi faceva gli agguati dietro le colonne di piazza Santo Stefano a Bologna: Lucio mi manca tanto. Mi fa molto sorridere vederlo sepolto accanto a Giosuè Carducci. Ne sarebbe molto fiero».
Da amante della musica, l’amicizia con Pavarotti come la viveva?
«Pendevo dalle sue labbra, volevo sapere del suo debutto alla Scala con Von Karajan o del triplo do di petto nella “Pira” del Trovatore. E lui invece mi chiedeva di Platini e della sua Juve. Poi un giorno del 1990 lo portai a Cesena per un’amichevole della Nazionale: si mise a tavola fra Vialli e Mancini e mentre loro mangiavano bresaola e insalata, lui continuava a divorare i cappelletti».
Enzo Ferrari, gran protagonista della sua tetralogia, cosa le ha lasciato?
«Una percezione di lui ben diversa da quelli che tutti avevano: un uomo certamente solo, duro, chiuso, che si difendeva dalle crudeltà della vita e invece dentro di sé aveva un tratto di grande umanità. Dietro a quella scorza c’erano grandissimi contenuti».
Le sue due figlie hanno scelto percorsi diversi da quelli paterni?
«Sì, una ha fatto l’accademia delle belle arti ed è una affermata scenografa, l’altra ha fatto il Dams: ha una cooperativa di teatro per ragazzi e insegna anche giocoleria e arti circensi».
Ha avuto tanti nemici?
«Due tre persone mi hanno fatto del male: a un certo punto mi sono accorto che montava un sentimento di invidia, ma io sono rimasto sempre Marino».
Con Gian Piero Galeazzi vi siete scontrati?
«Quando dirigevo Rai Sport, lui andò a Domenica In, mantenendo la conduzione di 90° minuto: gli chiesi di arrivare preparato e di non vestirsi da Zorro o Topolino fino a pochi minuti prima. Lo dicevo per il suo bene perché era un patrimonio della nostra testata, ma lui la prese male, anche se negli anni la cosa si è molto stemperata. Come sarebbe stato bello vederlo commentare la vittoria in Coppa Davis».
La politica che parentesi è stata?
«Non è stata politica, nel senso che il mio amore disarmato per Forlì mi ha portato a fondare una lista civica: ho preso il mio 36% e sono stato per quattro anni il consigliere comunale più presente. Portai un linguaggio nuovo. Alla fine mi concessero l’onore delle armi».
La malattia cosa le ha lasciato?
«La convinzione che dovremo volerci più bene, cercando di fare più prevenzione. Sono stato molto fortunato, perché tutto è stato preso in tempo, ma devo la mia vita a persone che sapevano terribilmente il fatto loro».
Che nonno è?
«Disarmato, anche perché non ho fatto il padre come avrei voluto. Filippo è un sognatore che vuol diventare chef, Alice una ragazzina che ha trovato la sua serietà nell’amore per cavalli».
Ha guadagnato molto in carriera?
Pavarotti in Nazionale
Portai il mio amico Luciano con me dalla
Nazionale: era a tavola tra Vialli e Mancini,
loro mangiavano bresaola e insalata,
lui divorava cappelletti
«Certe volte mi guardavo intorno a un Mondiale o a un’Olimpiade e mi dicevo: mi pagano pure per girare il mondo e seguire lo sport. Se qualcuno me l’avesse detto pronosticato a 16 anni non ci avrei creduto».
Ma lei da grande cosa vuole fare?
«Scrivo tanto del paradiso che comincio a pensarci seriamente. Mi piace immaginare che ci sia un aldilà in cui si può star bene e trovare le persone che abbiamo amato. Le statistiche Istat mi concedono ancora 8 anni e mezzo di vita e spero che siano anni sereni e fertili come adesso: dopo la Partita degli dei devo cominciare a pensare al Festival degli dei».