Corriere della Sera, 16 dicembre 2023
l’intervista ad Arianna Mihajlovic
«Solo in quest’ultimo mese sto prendendo coscienza del fatto che mio marito non c’è più. I primi mesi, non capivo più nulla, stavo a Roma, dove mi ero stabilita quando i figli hanno iniziato le superiori, e avevo come la sensazione che Siniša fosse ancora vivo e stesse a Bologna ad allenare la squadra».
È per questo che, su Instagram, ha scritto «tu ci sei, lo so», o «ovunque tu sia, so che ti amerò fino a lì»?
«È stato tutto così strano. Sentivo la sua presenza fisica in casa e quasi non sentivo la sua mancanza. Pensi che, nel momento in cui è mancato, ero talmente sotto choc che sorridevo a tutti. Forse, perché perdere mio marito è stato il mio primo lutto. Dopo, per mesi, ho avuto sensazioni da chiedermi se ero pazza».
Che sensazioni?
«Ho sentito delle mani sulle mie mani, proprio delle mani che avvolgevano le mie. E, una notte, l’ho sentito stendersi accanto a me nel letto, ho avvertito il materasso che sprofondava da una parte. Poi, ho cominciato a parlare con altre persone che hanno subito un lutto e ho scoperto che non ero io pazza, ma che queste esperienze appartengono a molti. Io sentivo il rumore delle sue ciabatte in cucina. Lui, in casa, portava sempre ciabatte che scricchiolano tanto. È successo nei primi mesi, ora non più. Ma forse erano suggestioni dettate dal pensiero costante che ho di lui. Penso a Siniša qualunque cosa faccio. Se conosco delle persone mi chiedo se gli sarebbero piaciute, se mi capita qualcosa, penso a cosa avrebbe detto lui».
Arianna Rapaccioni è la vedova di Siniša Mihajlovic, mancato troppo presto, a soli 53 anni, il 16 dicembre scorso, esattamente un anno fa. Sono stati insieme 27 anni, hanno avuto cinque figli. Gli è stata accanto quando era un giovane calciatore della Samp, quando vinceva lo scudetto, le coppe, le supercoppe, e quando, fino alla fine, non rinunciava ad allenare i suoi ragazzi del Bologna.
Arianna, suo marito aveva una leucemia cattiva, non aveva messo in conto che potesse morire?
«No. Poi, certo, non sono stupida e la sua era una malattia importante, ma anche lui negava l’evidenza. Se qualcuno gli chiedeva cos’aveva, diceva: amo’ che malattia ho? Mi chiamava così: amore. E io: hai la leucemia mieloide acuta. Siniša non leggeva i referti, non guardava su Internet, voleva solo sapere quali cure fare. Ha sperato fino all’ultimo di guarire. Ha lottato come un leone, ha fatto cure allucinanti, due trapianti, una cura sperimentale tostissima... Gli sono stata accanto negli ospedali per quattro anni. Credo che il mio stato di choc dipenda anche dalla sofferenza vissuta insieme. Ricordo ancora i suoi occhi terrorizzati quando ci hanno detto che aveva una recidiva. Ricordo gli esami che andavano male».
A un certo punto, l’abbiamo visto tornare in campo, smagrito, consumato.
«Era un uomo fortissimo, possente, alto, bello. Aveva perso trenta chili e aveva tante infezioni. Vederlo spegnersi piano piano è stato traumatizzante anche per i nostri figli».
Non c’è stato un momento in cui ha temuto che non ce la facesse?
«Nell’ultimo mese, i medici mi hanno detto che sarebbe morto. Non sapevo se dirglielo. Mi sono confrontata con tutti e cinque i figli. Non l’ho detto a nessun altro. Abbiamo deciso di non dirglielo, per non togliergli quel lumicino di speranza. D’altra parte, lui non ci ha mai chiesto se ce l’avrebbe fatta, ha sempre lottato perché era un uomo che non poteva accettare di morire. Infatti, una settimana prima di andarsene, ha detto: sono felice perché ho tutti voi e voglio invecchiare con tutti i figli e tanti nipoti, ne voglio altri, ne voglio una tavolata piena. Quello è stato un momento durissimo».
Com’è stato l’ultimo mese?
«Siniša era a casa e io sentivo ogni giorno il dottor Luca Marchetti, l’oncologo, che teneva i contatti con i medici del Bologna e dell’ospedale Sant’Orsola, a partire dalla dottoressa Francesca Bonifazi. Mi spiegava come gestire un’eventuale emorragia, che poteva essere mortale. Al che, seguivo Siniša anche in bagno; di notte, non dormivo e lo guardavo. Un giorno in cui non c’ero, ha avuto la febbre a 40. Vicky, la figlia più grande, è stata bravissima: lui non voleva prendere le medicine; lei è riuscita ad aprirgli la bocca e infilargli dentro il farmaco e a fargli scendere la febbre».
Suo marito, quando poteva, tornava ad allenare la squadra, lei aveva paura che stancarsi gli facesse male?
«L’ho sempre assecondato, era impossibile da fermare e per lui il calcio era una medicina. Ovviamente, non è mai andato se non autorizzato dai medici».
Cos’è successo quel 16 dicembre in cui è mancato?
«Qualche giorno prima, si è svegliato con un principio di emorragia. Gli ho prestato le prime cure come mi era stato insegnato, ho chiamato l’ambulanza, ma lui non voleva salirci. Per giorni, io e i figli gli siamo rimasti accanto a turno e la cosa struggente è che l’ultima notte, invece, eravamo tutti lì. Quando il suo respiro è cambiato eravamo tutti in silenzio attorno a lui. Gli ho tenuto la mano, l’ho visto lottare con il respiro sempre più pesante. Mi è venuto da dirgli: vai, non ti preoccupare, ai ragazzi ci penso io. Solo a quel punto è spirato. Fino ad allora, nessuno di noi aveva pianto. Lo stile di famiglia è tenersi le cose dentro, ma lì ci siamo abbracciati tutti. È stato un momento forte. È stato brutto, ma in qualche modo bello».
La voglia di vivere
Una settimana prima di andarsene ha detto: sono felice perché ho tutti voi, voglio invecchiare con tanti nipoti, ne voglio altri, una tavolata piena
Perché, sempre sui social, sotto una vostra foto, ha scritto di parole non dette?
«Non siamo mai stati una coppia mielosa, che si dice “ti amo”. Nelle ultime settimane, avrei voluto dirglielo e dirgli anche tante altre cose. Ma si sarebbe insospettito e non sapevo come fare. Poi, il giorno prima che morisse, è venuto il medico Luca Marchetti, un amico, e Siniša, come al solito, gli fa: sei pessimo, quando mi fai uscire? Poi, gli ha detto: Luca, ti voglio bene. E io: a me non dici niente? Al che, mi fa: che c’entra, a te ti amo, è diverso. Così, anche io gliel’ho detto che l’amavo».
La sto facendo piangere.
«Se ho un rimpianto, è per quello che non gli ho detto. Su quanto gli sono stata vicina, rimpianti non ne ho. E ci sono stata sempre col sorriso. Poi, magari, dopo piangevo».
Il vostro primo incontro?
«A Roma, nel ’95, nel ristorante di un’amica, modella come me. Lui giocava nella Samp, era in Italia dal ’92, aveva giocato con la Roma ed era tornato a salutare i suoi amici. Mi ha visto e ha detto: la sposo. Anche per me è stato un colpo di fulmine, ho notato i suoi occhi buoni. Ho lasciato il lavoro da valletta a Luna Park quando mi ha chiesto la mano. Ci siamo sposati in un anno».
Lei di cosa ha nostalgia?
«Dei momenti in cui, tutti insieme, partivamo per le vacanze, o facevamo Natale».
Come passa oggi l’anniversario della morte?
«Faremo una benedizione ortodossa al cimitero. Lui era ortodosso. Solo parenti e amici, verrà Dejan Stankovic, che è stato il suo migliore amico e ci sta tuttora vicino, poi mia suocera e mio cognato dalla Serbia. E domenica, coi ragazzi, siamo invitati allo stadio a Bologna dal presidente Joey Saputo. Il Bologna è stato molto vicino a me e ai miei figli».
I figli come stanno?
«L’unica consolazione in questo anno è che tutti i quattro grandi stanno trovando una loro strada. Miroslav studia marketing alla Luiss e sta prendendo il patentino di allenatore a Coverciano. Viktorija lavora nelle redazioni di Maria De Filippi. Virginia è sposata, sta a Genova col marito e la figlia. Dušan studia Scienze Motorie e lavora con Alessandro Lucci, bravissimo procuratore di calcio. Il piccolo, Nicholas, fa il liceo. Resto io che devo capire che fare: voglio che i miei figli vedano una mamma attiva, che ha un lavoro o un interesse».
Ha un ricordo che racconti com’era fatto suo marito?
«Non uno, ma tanti e riguardano sicuramente la sua generosità. Ha sempre aiutato tutti. E poi ricordo il suo amore per il calcio. Quando il 25 agosto 2019 è andato alla partita contro il Verona, si è messo le scarpe, tremava, aveva l’affanno, ma è andato».
I momenti più belli della sua carriera?
«Gli anni in cui abbiamo creato tutto, quelli della Lazio dal 1998 al 2004. Nel ’98, è nata la seconda figlia, poi sono arrivati lo scudetto del 2000, il terzo e il quarto figlio. A proposito, voglio ringraziare i tifosi della Lazio: fanno tanto per ricordare mio marito».
Che cosa le manca di più?
«Quelle due parole che Siniša mi diceva quando avevo i miei momenti. Parlava poco, ma sapeva trovare la cosa da dire per farmi stare bene».