Corriere della Sera, 16 dicembre 2023
L’intervista alla Nobel iraniana Narges Mohammadi
Le è stato assegnato il premio Nobel per la Pace ma non ha potuto ritirarlo perché detenuta in un carcere in Iran dal 2016. «Ma nessuna prigione rinchiuderà mai la mia voce – dice al Corriere l’attivista Narges Mohammadi —. Lotto per Mahsa e Armita, il velo è sottomissione».
O ggetto: «Narges Mohammadi». Testo: «La signora Mohammadi ha risposto alle vostre domande, ringrazia per l’attesa».
L’email arriva a sorpresa, a sei giorni dalla consegna del premio Nobel per la pace. Al municipio di Oslo c’erano i figli gemelli Ali e Kiana, 17 anni, e una sedia vuota, a raccontare la sua assenza. Mohammadi, 51enne, dal 2021 in carcere a Teheran, è stata arrestata 13 volte e condannata a 31 anni e 154 frustate.
L’ingegnera, vicepresidente del Centro dei Difensori dei Diritti Umani, attivista e soprattutto simbolo della lotta iraniana alla dittatura, risponde per iscritto da una cella microscopica che condivide con altre quattro compagne, nel braccio femminile di Evin. Sulla parete, in alto, una piccola finestra da cui vede le amate montagne, accenno lontano di libertà.
«I prigionieri hanno diversi modi per comunicare con l’esterno ma preferiamo non andare nel dettaglio», dice il marito e attivista Taghi Rahmani, che non sente la voce della moglie da due anni. «Narges raramente fa interviste, ma quando riesce è molto felice di raccontare la rivoluzione iraniana. Però, ogni messaggio che fa uscire dal carcere ha un prezzo».
Come paga questo mettersi di traverso con il corpo e con le parole?
«Su di me – dice Mohammadi – aprono procedimenti su procedimenti: ne ho accumulati sei. Per due di questi sono stata condannata ad altri 27 mesi di prigione e quattro di pulizia delle strade, sono in attesa di un altro verdetto».
Che cosa vuol dire per una madre, per un genitore, non vedere i propri figli da otto anni?
«Stare lontano da un figlio è il dolore più atroce che si possa immaginare. Il primo arresto è avvenuto quando Ali e Kiana avevano 3 anni e 5 mesi. Sono stata in isolamento, in un reparto di massima sicurezza. Non c’erano telefonate, né visite, non sapevo nulla di come stavano i miei bambini, ero tormentata. Ogni volta che penso a quel periodo, non posso credere di essere sopravvissuta a così tanta pena. Poi è andata anche peggio».
Cioè?
«La seconda volta che mi hanno arrestata e messa in isolamento, Kiana e Ali avevano 5 anni e Taghi era scappato a Parigi. In cella non facevo che pensare alla solitudine, all’impotenza dei miei figli, così piccoli, così soli: era insopportabile. Mi sono salvata solo grazie alla mia fede nella libertà per ogni essere umano. Così la sofferenza non diminuisce ma trova un senso. Non posso lamentarmi».
Ora i suoi figli hanno 17 anni e sono andati a Oslo a ritirare il Premio al suo posto. Che cosa significa per lei questo Nobel?
«Il messaggio che ho mandato e che Ali e Kiana hanno letto durante la cerimonia iniziava con lo slogan “Donna, Vita, Libertà”, in onore della rivoluzione del popolo iraniano. Per me il Nobel è una dichiarazione di sostegno globale al movimento progressista d’Iran. È per l’Iran che si ribella».
Ma anche un riconoscimento al suo coraggio d’attivista che ha dedicato la vita al sogno di un Paese libero entrando e uscendo dal carcere.
«L’ultima volta che sono uscita di prigione era il 2020. Ho subito provato ad andare a Parigi dove vivono i miei figli e mio marito, ma mi è stato proibito di lasciare il Paese. Sono stata libera per un anno, poi mi hanno processata di nuovo e condannata. Per la quarta volta mi hanno messo in isolamento. Non mi hanno mai interrogata, né ho visto un avvocato. Sono stata condannata a otto anni e tre mesi e 74 frustate, quelli che sto scontando».
A Evin?
«Prima a Qarchak, un carcere femminile. Un mese dopo ho avuto un infarto, mi hanno concesso di andare in ospedale dove ho subito un intervento. Dopo sei mesi sono stata trasferita nel reparto femminile della prigione di Evin, a Teheran».
Un mese fa, dopo un peggioramento delle sue condizioni di salute, ha iniziato uno sciopero della fame. Le hanno negato il permesso di uscire dal carcere per una visita importante perché lei si è rifiutata di indossare l’hijab. Piuttosto che il velo, la morte?
«L’hijab obbligatorio non è un dovere religioso o un modello culturale, né, come dice il regime, il modo per preservare la dignità e la sicurezza delle donne. L’hijab obbligatorio è uno strumento per sottometterci e dominarci. È uno dei fondamenti della teocrazia autoritaria e io lo combatto con tutta me stessa. L’uccisione di Mahsa-Jina Amini e di centinaia di manifestanti nelle strade, l’uccisione di Armita Garawand per me sono e saranno per sempre un dolore che mi è entrato in gola. Non indossare il velo nemmeno per una visita medica necessaria è la mia protesta e la mia forma di resistenza contro l’oppressore: non farò mai un passo indietro».
In passato, ha denunciato la violenza sulle donne e gli stupri nelle carceri. Che cosa succede nella prigione più famigerata d’Iran?
«La violenza sulle donne e soprattutto sulle manifestanti è costante, non solo qui. Sono stata testimone dei corpi contusi, spezzati e feriti delle detenute. Gli attacchi contro le prigioniere sono uno degli strumenti di repressione che il regime ha più usato nell’ultimo anno, sebbene sia sempre stata una pratica diffusa della Repubblica islamica. Io e le mie compagne abbiamo conosciuto l’isolamento e la massima sicurezza, tante sono le storie che abbiamo ascoltato di aggressioni sessuali. Poi c’è il livello superiore: le impiccagioni».
Nell’ultimo anno il regime ha impiccato centinaia di persone. Otto manifestanti.
«Le esecuzioni sono una delle gravi violazioni dei diritti umani. Le autorità fanno un’altra cosa terrificante di cui si parla meno: chiudono chi ha manifestato nei centri psichiatrici, la brutalità di quello che fanno lì dentro è sconvolgente. Ho protestato in carcere anche per loro».
Le sue lotte trovano sostegno in carcere?
«Oggi, tra le donne detenute, vedo più unità, empatia e motivazione alla lotta. Noi prigioniere politiche veniamo da storie e formazioni diverse, ma tutte abbiamo lo stesso obiettivo: porre fine al dominio della Repubblica islamica, e per questo “lavoriamo” insieme. Tra di noi ci sono donne di 70 anni che rispettiamo come madri. E sei ragazze che hanno meno di 25 anni che amiamo come figlie. Siamo famiglia».
Come vive le sue giornate?
«Studio molto, parlo con le amiche, organizzo celebrazioni, faccio esercizio e svolgo attività quotidiane che mi fanno sentire come se la vita continuasse. Continuiamo la lotta da qui con scioperi della fame, sit-in, opponendoci al velo. Le mura della prigione non impediranno alla mia voce di raggiungere il mondo».
Per che cosa lotta?
«Per la realizzazione della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza. Noi iraniani vogliamo una società civile forte e indipendente. La democrazia non esiste senza il rispetto dei diritti umani e quindi dei diritti delle donne».
Qual è la forza del movimento «Donna, vita e libertà»?
«È un movimento rivoluzionario nato dall’iniziativa delle donne che poi ha visto la partecipazione degli uomini e di varie classi e gruppi della società – studenti, giovani, insegnanti, lavoratori. Questa caratteristica ha consentito la diffusione capillare della disobbedienza civile, nonostante la dura repressione nelle strade. Credo che “Donne, Vita, Libertà” abbia notevolmente accelerato il processo di democratizzazione del Paese. Ha portato cambiamenti irreversibili. Io sono molto fiduciosa sul futuro dell’Iran».
Che cosa si aspetta dalla comunità internazionale?
«È importante che il mondo veda e riconosca la nostra lotta e i cambiamenti nella società iraniana. Mi aspetto che i governi stranieri e l’opinione pubblica globale garantiscano i diritti umani e il processo di democrazia in Iran».