Corriere della Sera, 15 dicembre 2023
Le correzioni di Berlinguer
Le risposte che sono rimaste storiche subirono correzioni minime. Quando Enrico Berlinguer, allora segretario generale del Partito comunista italiano, si ritrovò in mano il dattiloscritto dell’intervista rilasciata a Giampaolo Pansa alla vigilia delle elezioni politiche del 20 giugno 1976, aveva maturato lo strappo dall’Unione Sovietica; ed era deciso a farlo sapere. Per questo rispose che non voleva un’Italia fuori dal Patto atlantico, perché «mi sento più sicuro stando di qua». L’originale di quel testo, 9 cartelle battute con una macchina da scrivere Lettera 22, con gli appunti a penna di Berlinguer a margine, è stato conservato religiosamente da Pansa per decenni.
Dopo la sua morte, avvenuta il 12 gennaio del 2020, le carte sono state custodite nell’archivio del giornalista dalla moglie Adele Grisendi, che ha deciso di darne una copia al «Corriere della Sera»: il giornale sul quale apparve l’intervista. La cartellina che le contiene è introdotta da un quadratino giallo, un post-it sul quale Pansa annotò: «1976. Mia intervista a Berl. con le sue correzioni». Le ultime tre parole sono sottolineate, e giustamente. Quelle annotazioni di Berlinguer, con la biro e una calligrafia minuta, rimarcavano la preoccupazione per il modo in cui il leader comunista voleva essere percepito da un elettorato allora attirato sempre più dal Pci.
Ma si indovinava in parallelo la volontà del capo del comunismo di rassicurare Nato e Vaticano, in un mondo plasmato dagli accordi di Yalta del febbraio del 1945 sulle sfere di influenza tra Usa e Urss in Europa. L’ossessione berlingueriana era il colpo di Stato militare in Cile contro il governo socialista di Salvador Allende, nel settembre 1973. Quel golpe aveva fatto capire quanto gli Stati Uniti fossero decisi a preservare le leggi non scritte della guerra fredda. E infatti, fin dalla prima domanda di Pansa, che gli chiedeva se si augurasse una sinistra oltre il 50 per cento dei voti, Berlinguer rispose con parole caute.
«Mi auguro soltanto che la sinistra avanzi il più possibile: è una delle condizioni per rendere più certa la formazione del governo di larga unità democratica proposto dal Pci». Dettaglio indicativo: fu il segretario del Pci a volere inserire quell’aggettivo, «larga». E anche nella risposta successiva sottolineò l’esigenza di un governo «di intesa democratica la più larga possibile». Non voleva, anzi temeva una vittoria delle sinistre e un esecutivo formato solo da quelle forze. L’«incubo cileno» era troppo fresco per consegnarlo al passato.
Il compromesso storico che aveva in mente, con il presidente della Dc, Aldo Moro come interlocutore, era un incontro «nella società e nelle istituzioni» delle grandi correnti popolari del Paese: quelle «comunista, socialista e cattolica», le elencava Berlinguer, in quest’ordine. A rileggere il testo, le domande di Pansa e le repliche, si vede chiaramente che i passaggi più tormentati riguardavano le possibili soluzioni di governo dopo il voto. Berlinguer corresse e precisò le proprie risposte sui rapporti sindacali, in particolare, rifiutando l’ipotesi di un «patto sociale» tra governo e sindacati. Fu duro nel respingere l’idea di un accordo per moderare le richieste salariali. «Le ripeto», disse, «che siamo contrari a questa impostazione».
Le annotazioni del segretario del Pci, con la biro e una calligrafia minuta, rimarcavano la preoccupazione
per il modo in cui sarebbe stato percepito dall’elettorato, sia in politica interna sia estera
Ma soprattutto sull’Unione sovietica, sulla percezione che a Mosca si aveva del Pci e del suo segretario, l’intervista rivela un tormento, se non un timore oscuro: è pieno di cancellature, di aggiunte. Occupa la parte centrale delle nove cartelle. Quando Pansa chiese a Berlinguer se non si sentisse considerato un eretico del marxismo a Mosca, la replica fu: «Non so come mi considerino». Ma bocciò l’idea sovietica di un «marxismo come un corpo chiuso di principi la cui formulazione letterale dovrebbe dare risposta a tutto». Berlinguer aggiunse, prudente, che a Est non vedeva «tutto nero», pur cogliendo «gli aspetti gravemente limitativi della libertà». E a Pansa che gli faceva notare che le critiche all’Urss sul pluralismo erano «spesso invisibili», relegate nell’ ultima pagina dell’«Unità», quotidiano del Pci, si difese ricordando anche articoli di prima pagina. «Se è questo che le interessa», precisò con una punta di spigolosità.
Erano parole di un capo comunista affidate a un giornale «borghese» per antonomasia, con il coraggio calcolato e le reticenze altrettanto calcolate di un leader che doveva bilanciare lo strappo contenuto alla fine dell’intervista con l’ortodossia di partito. Dietro aveva un mondo abituato a considerare l’Urss un faro, e l’Occidente il nemico. «Non teme che Mosca faccia fare a Berlinguer e al suo eurocomunismo la stessa fine di Dubcek e del suo “socialismo dal volto umano”?», chiese Pansa a Berlinguer, evocando la «Primavera di Praga» repressa dai carri armati russi nel 1968.
La risposta fu indicativa. «Non esiste un solo atto che riveli l’intenzione dell’Urss di andare al di là delle frontiere fissate da Yalta», gli disse Berlinguer, riformulando la frase nella quale sosteneva: «Non c’è espansionismo sovietico al di là delle frontiere fissate da Yalta». «Lei, dunque, si sente più tranquillo proprio perché sta nell’area occidentale?», lo incalzò Pansa. E Berlinguer ammise che sì, «non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia» il suo Pci poteva muoversi «senza alcun condizionamento». Semmai, intravedeva «problemi nel blocco occidentale». Era da lì, dal Patto atlantico che potevano arrivare. «Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia».
Poi aggiunse: «Riconosco che da parte nostra c’è un certo azzardo a perseguire una via che non piace né di qua né di là...». Il segretario del Pci si rendeva conto che stava sfiorando le colonne d’Ercole del patto di Yalta. L’intervista fu pubblicata sulla prima pagina del «Corriere» il 15 giugno del 1976. In seguito, Pansa raccontò che nell’incontro, l’11 giugno, nell’ufficio romano di Berlinguer a via delle Botteghe oscure, il suo portavoce Tonino Tatò, presente anche al momento delle correzioni, sembrò non gradire tutte le domande. E qualche risposta. Nel testo arrivato al «Corriere» la firma a penna di Pansa, in stampatello, ha qualche sbavatura di inchiostro. Ma l’intervista conserva tutto il suo nitore nella storia politica e del giornalismo.