Corriere della Sera, 15 dicembre 2023
Intervista a Gino Paoli
Gino Paoli, il miracolo italiano comincia nel 1958 con «Volare» di Modugno, e finisce nel 1963 con la sua «Sapore di sale».
«La scrissi in mezz’ora, come se qualcuno me la stesse dettando. Erano anni meravigliosi, anche gli operai avevano le 1500 lire per andare alla Capannina, e si pensava sarebbe durata per sempre. Io però vedevo già nuvoloni all’orizzonte».
E il primo segnale della crisi furono le dissonanze di pianoforte inserite da Ennio Morricone nell’attacco di «Sapore di sale».
«Un genio, allora non ancora famoso: per averlo dovetti litigare con la produzione. Ma l’inizio tambureggiante si deve alla chitarra basso del fratello di Little Tony».
Nell’anno in cui uscì la canzone forse più bella mai scritta da un italiano, lei si sparò al cuore.
«Avevo tutto, e non sentivo più niente. Le due donne più belle d’Italia, Ornella Vanoni e Stefania Sandrelli, erano innamorate di me. In garage avevo una Porsche, una Ferrari e una Flaminia Touring. Cos’altro potevo avere? Volevo vedere cosa c’era dall’altra parte».
E togliersi la paura della morte?
«La morte non mi fa paura. Il mio amico della vita, Arnaldo Bagnasco, era semmai convinto che fossi depresso per l’incidente stradale in cui era rimasto ucciso un giovane musicista. Io invece penso che la molla decisiva sia stata la guerra».
La guerra?
«La consuetudine con la morte. Uno dei miei primi ricordi è la fila dei cadaveri allineati sul ponte di Recco».
Cosa accadde su quel ponte?
«Eravamo sfollati in collina, e da lì assistemmo al bombardamento alleato che rase al suolo Recco, senza abbattere il ponte. Mio padre disse: tanto vale tornare a Genova. Prendemmo il treno, ma sul ponte dovemmo scendere e camminare. Odore di benzina, di ferro, di morte. La fila di gente con i piedi in avanti non la dimenticherò mai».
Cos’altro ricorda della guerra?
«Il comando tedesco era sopra casa nostra, a Pegli. Davanti ai carri armati erano ammonticchiati gli elmetti dei nemici uccisi, e io bambino mi divertivo a rubarli; a guerra finita mia madre li usò come vasi per i suoi fiori. Ma con i volantini americani rischiammo grosso».
Perché?
«Mio fratello Guido e io ne avevamo raccolti un sacco. I nazisti bussarono alla porta, e noi ci affannammo a bruciarli nel caminetto, mentre la mamma, che parlava tedesco, li intratteneva».
Come mai sua madre parlava tedesco?
«Era nata suddita dell’Impero austriaco, a Monfalcone. Dopo la seconda guerra mondiale, parte della sua famiglia finì nelle foibe. Brave persone che non avevano fatto nulla di male, sacrificate alla pulizia etnica dei titini. Di loro non è rimasto niente: non un corpo, non una tomba».
Come si sono incontrati sua madre e suo padre?
«Al circolo ufficiali. Papà comandava il sommergibile Fratelli Bandiera. Ne ho visto uno uguale: pareva una bara. Poi divenne comandante di coperta della Littorio. Quando vide i ricognitori inglesi fotografare il porto di Taranto, portò la sua nave al largo, e la salvò dall’attacco del 12 novembre 1940».
Nella sua bellissima autobiografia, «Cosa farò da grande», pubblicata da Bompiani, lei scrive che il suo eroe era nonno Gino.
«Gino Paoli, come me. Operaio all’altoforno di Piombino: 70 gradi d’estate, 70 gradi d’inverno. Aveva la pelle dura come cuoio. Suo padre, birocciaio maremmano, lo picchiava con la frusta dei cavalli, fino a quando sua madre non gli cacciò il coltello alla gola: “Se tocchi ancora Gino, ti sgozzo”. Non lo toccò più».
C’è anche la violenza, nella sua vita.
«Anche quella è il retaggio della guerra. La mia maestra, accusata di collaborazionismo, fu ammazzata dai partigiani, dopo essere stata rasata e condotta nuda per strada, tra due ali di folla che le sputava addosso».
Ma i partigiani liberarono Genova.
«Entrarono dopo che i tedeschi se n’erano andati, senza eseguire l’ordine di Hitler di distruggere la città e il porto. Il comandante della guarnigione e l’arcivescovo Boetto, entrambi massoni, si accordarono per evitare una strage».
Lei Paoli non era comunista?
«Sono convinto che i beni dell’intelletto e della natura vadano messi in comune. Ma il comunismo doveva essere una tappa verso la libertà, l’anarchia. “Anarchie avec une A grande comme amour”, diceva Léo Ferré».
Nel libro c’è anche un ritratto di Léo Ferré.
«La moglie, stanca di tradimenti, lo lasciò, e per sfregio sparò ai suoi due cani. Gli uccise anche la scimmia Pépée, che Léo adorava».
Da ragazzo lei tirava di boxe.
«Mio padre mi disse: se le buschi, il resto te lo do io. Nella Genova del dopoguerra saper fare a botte era una necessità».
È vero che fece a pugni pure con Felice Maniero?
«La criminalità ha sempre costeggiato il mondo dello spettacolo. Maniero stava picchiando una donna. Lo fermai, e mi diede un cazzotto perfetto, bellissimo, dritto al mento. A quel punto gli dissi: andiamo fuori e regoliamo la faccenda. Fu arrendevole: “Quella donna è mia moglie, mentre ero in galera mi ha tradito con i miei amici. Se ora tu e io combiniamo casini, mi riportano dentro...”».
E lei?
«Obiettai che non poteva picchiare la moglie nel locale dove cantavo io; e finì lì. Ma la voce si sparse, Memo Remigi mi disse: “Sei matto Gino a fare a pugni con il capo della mala del Brenta?”. In galera invece sono finito io, ma un’altra volta: picchiai uno che stava bastonando un cane».
Diede mai un cazzotto perfetto pure lei?
«Sì, a un tizio che vedendomi passare si era toccato le palle. Vestivo di scuro, portavo occhiali scuri: girava la voce che portassi sfiga. Lo centrai in pieno volto, poi gli dissi: hai visto? La sfiga è arrivata davvero».
Perché scrive che lo spettacolo è un mondo di m.?
«Perché è tutto apparenza. Oggi peggio di ieri. Ieri avevamo Mina e la Vanoni. Oggi emergono le cantanti che mostrano il culo».
Ha mai fatto a botte per politica?
«Nel luglio 1960 c’ero anch’io nelle strade di Genova. Del governo Tambroni non ci importava nulla. Ma quando sapemmo che in città per il congresso del Msi sarebbe tornato l’ex prefetto Basile, quello aveva compilato le liste dei deportati in Germania, capimmo che dovevamo batterci».
Torniamo alla notte dell’11 luglio 1963. Perché si sparò al cuore?
«Provo con i barbiturici, il Nembutal, annaffiati con il calvados, ma non mi fanno niente. Penso di gettarmi di sotto; ma non voglio dare a mia madre il dolore di vedere un figlio straziato. Mi ricordo di avere due pistole. Faccio le prove sparando con la Derringer calibro 5 dentro un libro bello spesso, e vedo che il proiettile entra in profondità. Così mi corico sul letto, e mi sparo. Non alla testa, sempre per non dare quel dolore a mia madre. Al cuore».
Come è sopravvissuto?
«Il proiettile si fermò nel pericardio. È ancora lì, e mi tiene compagnia; ha anche smesso di suonare al metal detector. Meglio così. Ogni volta spiegavo: ho una pallottola nel cuore. E nessuno mi credeva».
Chi venne da lei in ospedale?
«Ho una foto con Rita Pavone e Teddy Reno al mio capezzale. Ornella passò di notte, per non dare nell’occhio. Nel corridoio Luigi Tenco ripeteva sconsolato: non si fanno queste cose...».
Si disse che lei si era sparato perché aveva scoperto la storia tra Tenco e Stefania Sandrelli.
«Quello accadde dopo. Luigi mi telefonò: “Sono a letto con Stefania”. La presi malissimo e ruppi con entrambi. Se non l’avessi fatto, lui sarebbe ancora vivo. Quella sua telefonata non nasceva da una vanteria maschile, ma da un senso di protezione. Tenco era legatissimo alla mia prima moglie, Anna. Era il suo modo di dirmi che Stefania non era la donna giusta per me».
Com’era Tenco?
«Lui e io ci siamo fatti l’immagine di poeti maledetti perché nei locali, anziché corteggiare le ragazze, ci mettevamo in un angolo immusoniti e tenebrosi, alla James Dean, con il pugno sulla tempia, così (Gino Paoli per un attimo diventa Tenco immusonito). Così le ragazze arrivavano. Non ho mai corteggiato una donna; erano loro a venire da me».
In realtà?
«In realtà Luigi Tenco era un gigantesco cazzone. Divertentissimo. Adorava gli scherzi».
Quali scherzi?
«Il suo preferito era quello della cravatta: si avvicinava sorridendo, ti poggiava una mano sulla spalla, ti faceva parlare, e intanto con le forbici ti tagliava la cravatta. Una volta, dopo aver visto un film su un suicidio, rifacemmo la scena madre su un tetto di Genova: io fingevo di volermi gettare di sotto, lui di trattenermi. Dovemmo smettere perché si era creata una folla in attesa...».
Che idea si è fatto della morte di Tenco?
«Un colpo di teatro non riuscito. Come se avesse voluto imitare me: spararsi, e restare vivo. Andava molto una droga arrivata dalla Svezia, il Pronox, che ti dava un senso di sdoppiamento, come se non fossi più responsabile di te stesso... Appena arrivò la notizia mi precipitai a Sanremo. Il festival andava fermato; e se fossi stato in gara sarei riuscito a fermarlo. Incontrai Lucio Dalla, e lo attaccai al muro».
Perché?
«Avrebbe dovuto ritirarsi. Tanto più che la sua canzone si intitolava “Bisogna saper perdere”. E tanto più che tutti collegavano Lucio a me».
Dalla in effetti ha sempre riconosciuto che fu lei a convincerlo a cantare.
Iniziai con una canna, poi divenni prigioniero della droga Smettere con l’alcol fu ancora più dura: per vent’anni ho bevuto una bottiglia di whisky al giorno. Entrai nella redazione di un rotocalco e minacciai tutti con una mazza da baseball
«Avevo semplicemente capito che era un genio. D’estate giravamo a torso nudo su una decapottabile, e si formavano resse per vederci: entrambi pelosissimi, non eravamo un bello spettacolo. Dividevamo la stanza, a volte il letto, senza che mi sia mai venuto il dubbio che Lucio fosse omosessuale. La prima volta che lo portai in uno studio discografico, chiese di abbassare le luci. Nella penombra lo vidi cantare nudo, con le mutande in testa».
Guccini racconta che a Bologna girava una voce: Dalla era figlio di padre Pio.
«Secondo me è davvero possibile. Di sicuro la madre lo lasciava tre mesi all’anno in convento da padre Pio».
Guccini dice pure che la canzone italiana d’autore comincia con «Il cielo in una stanza».
«È la storia di un orgasmo. Poco importa se con una prostituta – io sono della generazione dei casini, dove ebbi la mia iniziazione a sedici anni —, con la donna che ami, o da solo. È la stessa cosa. E mentre inizia è già finita».
Mogol fece cantare «Il cielo in una stanza» a Mina.
«Io ero contrario, la consideravo un’urlatrice. Non avevo capito nulla. Ma è vero che Mina diventa Mina con quella canzone. Quando finì di inciderla scoppiò a piangere».
E Celentano?
«Un bambino di quasi 86 anni. Candido. Mi offrì di entrare nel suo clan. Gli chiesi: chi comanda in questo clan? Adriano rispose: io».
E lei?
«Dissi: no grazie, non potrei stare in un clan dove non sia io a comandare».
L’incontro con la Vanoni?
«Primavera 1960. Avevo già scritto “La gatta”. Sono alla Ricordi, al pianoforte. Alzo lo sguardo e vedo questa splendida donna, la voce sensuale, le mani grandi, che mi chiede di comporre una canzone per lei».
Era Ornella.
«Io le ho insegnato a cantare: senza di me avrebbe continuato con le canzoni della mala con cui lei, di famiglia borghese, non c’entrava nulla. Ornella mi ha insegnato il sesso. Ero pieno di sensi di colpa. Con lei ho imparato a parlare facendo l’amore. Prima andavo a letto con chiunque respirasse; con Ornella ho scoperto la libertà e la naturalezza».
È noto che a lei avevano raccontato che la Vanoni fosse lesbica, e alla Vanoni che lei fosse gay.
«Eravamo in un bar di Milano. Un bar brutto, camerieri scortesi. Glielo chiedo con il cuore in gola: ma a te piacciono le donne? Ornella trema, mi risponde di no, e mi chiede: ma a te piacciono gli uomini? Ci baciamo con passione, la porto in un albergo che frequentavo, pieno di prostitute, e ci chiudiamo in camera».
Lei però era già sposato.
«Con Anna. Ero alla Bussola con mia moglie, e arriva Ornella, che la vede, si intristisce, e balla per tutta la sera con Sergio Bernardini, piangendogli sulla spalla. Poi vado in albergo a Viareggio, e scopro che pure Ornella ha preso una camera lì. Presagisco il disastro e chiedo al portiere di svegliarmi alle 7, per tenere la situazione sotto controllo. Ma quel disgraziato non mi sveglia, e quando scendo in giardino per colazione le trovo tutte e due, Ornella e Anna, sedute su un dondolo che mi dicono: “Adesso devi scegliere. O una o l’altra”».
E lei?
«Le ho mandate tutte e due al diavolo, e me ne sono andato».
Era solo l’inizio. Lei ha avuto due figli nello stesso anno, il 1964: Giovanni da sua moglie, e Amanda da Stefania Sandrelli.
«I rotocalchi impazzirono. Mi seguivano dappertutto, per fotografarmi con i bambini. Così entrai nella redazione di “Stop” con una mazza da baseball, gridando: “Se non la smettete, torno qui e con questa abbatto il primo che incontro”. Smisero».
È riuscito a far loro da padre?
«Stefania si era sposata con un uomo che non mi piaceva. Lo affrontai e lo convinsi a lasciarmi la bambina. Così Amanda e Giovanni sono cresciuti insieme. Grazie alla generosità di mia moglie Anna».
Ogni tanto lei insultava il pubblico.
«Alla Bussola inizio il concerto con “Non andare via”, la mia versione del capolavoro di Jacques Brel. Il pubblico rumoreggia: “Fai le tue canzoni!”. Lo accontento, e poi lo mando a quel paese: “Imbecilli! Se non capite Brel, non capite neppure me”. In platea c’erano Agnelli e Moratti. Presagisco un altro disastro».
Invece?
«La sera dopo c’era una folla enorme, non si riusciva a entrare. Tutti i borghesi erano lì per farsi insultare da Gino Paoli».
Altre volte cantò dando le spalle al pubblico.
«Comincio “Il cielo in una stanza”, e tra una strofa e l’altra un tizio in prima fila grida: Chiove a zeffunno! “Quando sei qui con me...”. E quello: Chiove a zeffunno! “Questa stanza non ha più pareti...”. Chiove a zeffunno! Dovetti fermarmi e chiedergli: si può sapere cosa vuoi? Voleva una canzone napoletana – chiove a zeffunno vuol dire piove a dirotto – che non avevo mai sentito. Me ne andai».
Poi arriva il ’68, e lei si ritira dalle scene, sul serio.
«Era una falsa rivoluzione. Non mi apparteneva. E mio padre mi aveva insegnato che, quando non si ha niente da dire, si deve tacere. Così mi ritirai a Levanto, dove aprii un locale».
E si diede alla droga.
«Ne ero diventato prigioniero. Per due anni. Avevo iniziato con un canna, per recuperare la voce. Poi ho provato cose sempre più pesanti. Ma quando hanno arrestato il mio pusher, ho smesso. Non per virtù; per necessità».
Con l’alcol è stata più dura.
«Per vent’anni mi sono scolato una bottiglia di whisky al giorno. Ora, come vede, non bevo neppure il pigato».
Nel libro però rimpiange di non aver salvato la persona che amava di più.
«Mio fratello Guido – un fisico, intelligentissimo – sprofondò nell’alcol senza che io me ne accorgessi».
E nella sua vita entrò la donna che ora è sua moglie, Paola.
«Aveva quindici anni. La respinsi: non volevo finire di nuovo in galera. Tornò quando ne aveva compiuti sedici. All’epoca avevo una donna in ogni città: Paola le affrontò tutte. La rivale più pericolosa, quella di Torino, quasi una fidanzata, la mise in fuga sguainando un coltello a serramanico».
È vero che dai discografici si faceva pagare in case?
«Era l’unico modo per non dissipare tutto. I primi concerti me li pagavano in contanti, io infilavo i soldi in un sacco e lo rovesciavo sul tavolo di casa: chi voleva si serviva. Firmai il primo contratto a Milano con la Ricordi, uscii dalla Galleria, c’era una bancarella di tartufi che cominciai a sgranocchiare come caldarroste. Poi entrai in una concessionaria d’auto e comprai una Austin-Healey 3000, con il cambio all’inglese che non sapevo usare. Feci mezza Milano-Genova in prima; a Voghera fusi il motore. Le piace questa casa?».
Dal terrazzo si vede la Liguria da Portofino a Bergeggi.
«Metà me l’ha comprata la Rca, l’altra metà la Cgd. Altrimenti non mi sarebbe rimasto nulla».
Anche Califano cominciò la sua carriera grazie a lei.
«Un talento pazzesco, purtroppo rovinato dalla droga».
Come Chet Baker.
«In Versilia aveva trovato un medico che gli passava farmaci con la morfina. Solo che doveva bucarsi più volte al giorno. Andò in crisi, non si trovava un angolo di pelle dove iniettargli il metadone: alla fine lo bucarono qui, sotto l’occhio, e lo salvarono».
Come trova la Meloni?
«Piccola, dura, tosta. Sono contento che ci sia una donna a Palazzo Chigi. Dovremmo eleggerne di più».
Perché?
«Perché sono più intelligenti. Vale anche per i cani, sa? Io ho solo femmine: Nana, una bulldog; Lula, una labrador; Leila, una lupa cecoslovacca».
E a sinistra chi le piace?
«La Schlein è un mistero: non conosco la sua storia, non capisco come guida il partito. Trovo interessante Greta Thunberg. La barca affonda, e a bordo ci siamo tutti».
Grillo?
«È un amico. Come Antonio Ricci e Renzo Piano. E gli amici non si giudicano. È un idealista che voleva davvero fare qualcosa per il Paese; come l’abbia fatto, è un altro discorso».
L’anno prossimo lei compirà novant’anni.
«Festeggerò abbracciando il Cristo degli abissi, nel mare di San Fruttuoso. Fino al Covid lo facevo ogni estate, in apnea. Ora ricomincio».
L’aldilà esiste?
«Non ne ho la certezza, ma la convinzione sì. Un fiore muore e rinasce. Perché noi no? Ma della nostra coscienza che sarà? È da quella notte del luglio 1963 che vivo con questa curiosità».