Domenicale, 10 dicembre 2015
Ancora sugli stiliti
Nessuna storia delle performing arts, temo, tiene in conto un antefatto essenziale: le vite di quei Santi che infliggevano a sé stessi inquietanti discipline del corpo. Alla più singolare di queste performances ascetiche è dedicato il libro di Laura Franco sugli stiliti, che s’insediavano per decenni in cima a una colonna (in greco stylos) riducendo al minimo le funzioni corporee. Se gli eremiti cercavano i luoghi più remoti, gli stiliti si mettevano in mostra, invece, nei pressi delle città, avevano bisogno di un pubblico. Immobili come statue, inscenavano pratiche corporee estreme, codificate e spettacolarizzate. Il loro supplizio autolesionistico era un atto di fede, testimoniava la grandezza di Dio, induceva altri asceti all’imitazione, in un’atletica gara di privazioni ed eccessi. Storie che parrebbero di pura invenzione, se non fossero documentate da ricche fonti storiche, da cui risulta l’origine di questa pratica (in Siria), la sua diffusione (in tutta la cristianità orientale), e la cronologia.
Il primo stilita fu San Simeone il Vecchio, che salì sulla colonna nel 412; il più tardo è l’anonimo stilita di Salonicco a cui si rivolse nel 1179 un’orazione di Eustazio, il dottissimo commentatore di Omero. Simeone il Vecchio dettò l’esempio, in gara anche con sé stesso: dalla prima colonna (alta tre metri) passò dopo sette anni sulla seconda (tredici metri), e dopo quindici sulla terza (diciotto metri), fino alla morte nel 459.
Ci sono noti non meno di 123 stiliti (due le donne), e Franco ne racconta alcune vite. Attratto dalla «novità dello spettacolo», scrive il contemporaneo di Simeone Teodoreto di Cirro, il pubblico accorreva numeroso. Alla morte del primo stilita un altro, Daniele, ne raccolse l’eredità installandosi su una colonna presso Costantinopoli, e come il suo predecessore si spostò su colonne sempre più alte. Il suo trasferimento dalla seconda alla terza colonna (offerta dall’imperatore Leone I il Trace) fu spettacolare: da una colonna all’altra fu posta un’asse di legno, su cui Daniele si spostò come un acrobata alla presenza dell’imperatore e del patriarca di Costantinopoli.
Dall’alto della sua colonna lo stilita prega, predica, dà udienza ai postulanti, opera qualche miracolo e resiste a qualche tentazione; dialoga coi potenti, come Daniele con Leone I o più tardi Simeone il Giovane con Giustino II, somministrando precetti spirituali e consigli politici. Raccoglie intorno a sé ubbidienti comunità monastiche, intavola conversazioni e trattative con vescovi e abati; ora rifiuta l’accesso alle donne, ora invece dà ascolto a qualche madre affranta in cerca di miracoli. L’iconografia, abbondantissima, non indugia su questa colorita aneddotica, ma consacra la potenza iconica dell’asceta, sempre ostinatamente in piedi al culmine della sua colonna mentre la folla lì intorno s’industria di attirare la sua attenzione. Come nelle performing arts del nostro tempo, lo stilita cattura il pubblico per il suo agire inatteso e opposto al senso comune; porta all’estremo le potenzialità del corpo e ne fa lo strumento che impersona non solo la carne e il mondo sensibile, ma l’anelito dell’anima verso Dio.
Nulla di più estraneo ai valori della modernità. Eppure l’ombra dello stilita ancora ci insegue, in poemi di Kavafis o di Rilke ma anche nell’incompiuto film di Buñuel Simon del desierto (1965) o nella performance di David Blaine, che nel 2002 a New York, citando Simeone il Vecchio, stette in piedi 35 ore su un pilastro di trenta metri; per non dire della statua di Simeone su una guglia del Duomo di Milano restaurata nel 2018 da Assolombarda.
Come nacque un’usanza così bizzarra? L’ipotesi più promettente parte dalla “naturale” iconicità degli stiliti, che appartiene all’orizzonte tardo-antico di viventi personalità iconiche che condividono con le statue l’impatto emotivo e la virtus operativa. Ne parla un ottimo libro di Vladimir Ivanovici (Between Statues and Icons. Iconic Persons from Antiquity to the Early Middle Ages), appena uscito da Brill e degno di pronta traduzione. Il body language era essenziale per acquisire uno statuto iconico, e nessuno seppe farlo meglio degli stiliti (a cui Ivanovici dedica un illuminante capitolo). Alla radice della loro peculiare iconicità era la colonna onoraria romana, la cui ratio (scrive Plinio il Vecchio) era di «innalzare un mortale al di sopra di ogni altro». Le colonne imperiali (alte sui 40 metri), col fusto avvolto da bassorilievi e sulla cima un imperatore di bronzo in piedi, portano questa usanza al superlativo, a cominciare dalle due ancora in situ a Roma, la Colonna Traiana (c. 113) e quella di Marco Aurelio (c. 180), seguite dalle due (distrutte) di Costantinopoli, di Teodosio (386) e di Arcadio (403). Pochi anni dopo quest’ultima, Simeone inventò la sua performance mai vista prima: ponendo il proprio corpo martoriato in luogo del sovrano, lo stilita capovolgeva la gloria imperiale in suprema manifestazione di fede e umiltà. Altre colonne, come quella eretta a Damasco su modello di quella di Costantino ancora visibile a Istanbul, erano per dir così “negli occhi” del pubblico degli stiliti.
Ai due estremi cronologici delle pratiche stilitiche, due sguardi “occidentali” possono servire da controprova. Verso il 585, a Treviri, il longobardo Vulfilaico sgomina il persistente culto di Diana installandosi lì di fronte, in nome di Cristo, su un’alta colonna: la devozione migra dalla statua di marmo all’icona vivente. Nel 1204 il francese Robert de Clari, a Costantinopoli per la Quarta Crociata, vede le statue di Teodosio e Arcadio sulle loro colonne e li scambia per due eremiti che vivevano lì in cima, capovolgendo il rapporto fra statua vera e immobilità iconica dell’asceta.
Fattosi icona vivente in grazia dei tormenti inflitti a sé stesso, lo stilita sconfigge gli dèi e prende il posto dei sovrani, avoca a sé la mediazione fra il Cielo e i fedeli. Macerando la propria carne, diventa vas electionis spirituale che condensa nell’ascesi la potenza della fede; e sull’alto della colonna pone sé stesso, ma solo come figura del Cristo in cui crede.
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Laura Franco
Al di sopra del mondo.
Vite di santi stiliti
Einaudi, pagg. XIV – 252,