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 2015  dicembre 10 Giovedì calendario

Gli artisti e il loro corpo

corpo d’artista entra nel corpusFisico & arte. Andreas Beyer indaga la corporeità (e perfino il regime alimentare) come costruzione dell’individualità e nel suo ruolo all’interno del processo artistico. Dalla vulnerabilità all’assenzaUgo NespoloL’idea di ricercare la cicatrice nascosta della vita nell’arte è, in fondo, la traccia più profonda e sostanziosa che governa la navigazione storico-linguistica del dotto saggio di Andreas Beyer Il corpo dell’artista. Lo studioso ha diretto il Deutsches Forum für Kunstgeschichte di Parigi ed è professore di Storia dell’arte moderna all’Università di Basilea e anche il portavoce del gruppo di ricerca Bilderfahrzeuge Aby Warburg’s Legacy and the Future of Iconology di Londra. La sua tesi è quella per la quale quando ci si accinge a interpretare le opere d’arte si è soliti lasciare quasi sempre in ombra la figura dell’autore nonostante si sappia che nell’opera coesiste un’unità inscindibile tra la persona dell’artista e la sua opera. Forme e corpi ovunque ma mai un essere umano in carne e ossa. L’idea è allora quella di provare a dare vita, umanizzare, la fisicità degli artisti e l’autore lo fa innanzitutto indagando a fondo l’ambito della cultura figurativa rinascimentale tentando di ridefinire il rapporto fondante tra corpo e opera in passaggi continui che giungono sino a noi alla ricerca proprio della presenza corporea e della fatica del mettere in scena le opere d’arte anche in artisti più vicini a noi come Vincent van Gogh, Marcel Duchamp, Marina Abramovi? o Tracey Emin.
Beyer soffre la ristrettezza della forzata collocazione in un angusto ambito totalmente intellettuale dell’opera d’arte, attitudine capace di mascherare, o cancellare addirittura, bisogni e peculiarità del corpo e delle sue esigenze fisiche, quelle che invece influenzano profondamente il risultato artistico stesso. L’autore insomma ci pone di fronte a un’ipotesi di rilettura e riscrittura della stessa storia dell’arte, una visione non solo concettuale ma sostanziata di umana fisicità.
Già Ernst Gombrich apriva la sua Storia dell’arte scrivendo: «Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono gli artisti». In effetti – dice Beyer – in questi ultimi anni si è dato sempre più spazio alla committenza, alla teoria delle reti sociali ai fenomeni politici e socioculturali e alle leggi intrinseche del fenomeno visivo. Il suo studio mira piuttosto a far risaltare l’individuo per poter «quantificare l’apporto specifico dell’Io, il contributo della physis alla psiche di un artista, il ruolo giocato dal suo corpo e dalla mente».
Beyer s’interessa al corpo dell’artista, alle sue arti dell’esistenza, alle tecnologie del Sé e per porre un punto fermo ed esemplificativo del concetto del cortocircuito fra opera e autore ricorda il lavoro di Tracey Emin e la sua opera My Bed, letto sfatto esposto come appena lasciato dall’artista, autentica amalgama tra vita e gesto artistico.
La storia dell’arte si è costruita quasi soltanto come storia dello spirito e pochi pensatori come David Hume hanno saputo ravvisare nella physis il principio base dell’agire. Friedrich Nietzsche si è scagliato contro gli spregiatori del corpo: «Il corpo è una grande ragione», «Il corpo è l’istanza creatrice per eccellenza».
Beyer indaga la corporeità dell’artista anche come costruzione dell’individualità e persino come forza capace dell’invenzione del quotidiano.
Giorgio Vasari (1550) presenta Giotto, quando si limita a dipingere con un gesto un cerchio perfetto agendo al di fuori del suo habitus stilistico, come artista che mette in atto una mobilitazione del corpo e come principio agente dell’arte. Cennino Cennini fa della mano l’organo artistico per eccellenza, il luogo in cui corpo e spirito si fondono in una cosa sola.
E la fisicità irrompe nello studio di Beyer quando tratta del rapporto di Corpus e Opus ricordando di come Raffaello per Vasari incarni l’ideale estetico e morale della grazia «natura di bella forma di volto e di persona», e di come i contemporanei attribuissero a Leonardo un’avvenenza addirittura leggendaria.
La fatica delle cure del corpo può condurre all’introspezione e portare presto a visioni melanconiche e oniriche vicine ai ritratti senza volto del letto sfatto di Tracey Emin o quello vuoto di González-Torres o all’incisione di Dürer Sei studi di cuscini come tracce corporee dell’artista assente.
Si sa anche che il corpo è in stretta relazione col regime alimentare tale da definire una vera gastro-ontologia. Foucault individua nella pratica del regime dietetico una sorta di arte di vita, Jacopo Pontormo nel suo Tacuinum scrive «… è da usare la prudenzia … hai havere cura del mangiare e bere quando sé caldo».
Michelangelo mangiava appena: «È sempre stato nel suo vivere molto parco, usando il cibo più per necessità che per dilettazione …. il più delle volte s’è contentato d’un pezzo di pane», scrive Ascanio Condivi. Che l’arte e la buona cucina abbiano sempre avuto uno stretto rapporto è dimostrato ancora ai giorni nostri dal Diario Gastronomico di Daniel Spoerri del 1967 o da Peter Kubelka che ha avviato un insegnamento di cucina come una delle belle arti.
Il corpo dell’artista vive la sua vulnerabilità e le sue malattie che sovente mostrano segni visibili negli autoritratti come nel Goya curato dal dottor Arrieta del 1819, sono testimonianza di sofferenza e di dramma. L’idea di spogliarsi del corpo col suicidio appare, sia pure in caratteri distimici, curiosamente bassa e sovente gli artisti nel loro taedium vitae rivelano una forte componente di posa studiata, come scrive Rudolf Wittkower.
Beyer nella sua ricerca intende mostrare la genesi dell’artista moderno nel percorso di autocostituzione corporea e interiore, una presa di coscienza del Sé fisico e quindi la modellazione e l’attiva affermazione di quel Sé attraverso un’irriducibile caparbietà.
L’autoriferimento alla prima persona non s’accontenta dell’autoritratto se Marcel Duchamp nel Paysage fautif del 1946 dipinge con suo sperma e nel 1991 Marc Quinn in Self realizza un calco della propria testa con il suo sangue congelato.
Beyer indaga insomma «l’innesto tra arte e mondo, l’intreccio primordiale del Sé corporeo e quello artistico». Ci ricorda che in storia dell’arte se si usa la parola corpus per designare la produzione di un artista, forse è perché proprio al suo corpo e non ad altro rimanda il gesto della creazione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Andreas Beyer
Il corpo dell’artista
Einaudi, pagg. XIV – 306, € 36