La Stampa, 15 dicembre 2023
Il tassista RedSox, uno buono davvero
Sfortunato il Paese con 100 e passa miliardi di nero che cerca (e trova) i soldi ai danni dei soliti poveri cristi, e isola chi non si adegua, chi vuole pagarle, chi addirittura si vanta di farlo. Lo considera un fesso, se va bene. Un pericolo, nel peggiore dei casi.
Sfortunato il Paese in cui se denunci su «X» i tuoi veri guadagni da conducente di auto pubblica – 600 euro circa a turno, notturno – l’esito sono la cacciata dalle chat dei colleghi, le minacce, i pacchetti arrivati a casa contenenti ricordini organici, le gomme delle auto tagliate. Sfortunato, soprattutto, il Paese in cui chi si ritrova in mezzo a un turbine del genere finisce sospeso per una settimana dalla cooperativa in cui lavora. Niente chiamate né da telefono né da app. Guadagni pressoché azzerati. Motivo: aver indispettito e «diffamato» gli altri tassisti.
È la storia di Roberto Mantovani, che usa come nickname «RedSox», la squadra della MLB di baseball della quale è tifoso, ché a Bologna siamo un po’ sempre tra la via Emilia e il West. Con una passione oserei dire buonista per le cose giuste, normali, da cittadino perbene. Ad esempio usare il suo taxi per propagandare il Centro Antiviolenza sulle Donne, anche rivendendo i libri donatigli dall’amico Carlo Lucarelli. Ad esempio, anche, montare, tra i primi in Italia, il defibrillatore a bordo. Che ora però non può usare: i colleghi non lo volevano come compagno ai corsi di aggiornamento. Non è più abilitato.
Soprattutto, e qui cascano gli asini, appassionato di equità fiscale, per quella vecchia regola secondo cui pagare le tasse ti rende(rebbe) cittadino a pieno titolo e fa(rebbe) di te una persona autorizzata a lamentarsi se qualcosa di pubblico non funziona ma, soprattutto, commendevole, socialmente rispettata. In Giappone. Noi preferiamo la fiction: in Italia i tassisti dichiarano mediamente una dozzina di migliaia di euro l’anno e pagano le licenze tra i 150.000 e i 250.000. I casi sono due: benefattori loro, o fessi noi. E la risposta è Quèla: la seconda che hai detto.
Ma un po’ come per i balneari, i commercianti sovranisti della loro cassa, i piccoli professionisti dalla ricevuta sporadica, le altre categorie della cosiddetta evasione di necessità (necessità di tenere in cassa i soldi e non condividerli con lo Stato, necessità di mandare i figli alla scuola svizzera, talvolta) i prepotenti diventano vittime da proteggere. Sei un attivista per il clima e blocchi la strada? Mazzate. Lo fai in taxi? Ti ricevono nei Palazzi, ti candidano. Protetto, tollerato, aizzato anche da chi ti chiede il voto, o ti ringrazia per averlo già dato, agitando il «pizzo di Stato». Le cifre dicono altro: messi insieme, i piccoli evasori battono, e di gran lunga, le multinazionali. Ma quelle mica votano. Non direttamente, almeno.
Roberto ieri ha ricevuto la solidarietà del sindaco di Bologna, Matteo Lepore, che poi però coi suoi colleghi deve: per accendere 70 nuove licenze in una città che boccheggia, sono state necessari negoziati che manco tra Israele e Hamas. Se il sindaco si è esposto ugualmente, da primo cittadino di una città in cui Mantovani è amato assai, lo ha fatto proprio per rappresentare una città che al tassista eretico vuol bene. Dacché cominciò con le sue denunce spesso esilaranti, come il video, sempre su X, in cui interpretava il conducente No Pos e le sue scuse più tradizionali: «Ce li danno già così, non prende, è scarico, mi si rovinato il filo, è finito il rotolino della carta…». Mancavano solo le cavallette di John Belushi, ma non è escluso che qualche collega le abbia tirate in ballo.
Se gli parli e gli chiedi chi gliel’ha fatto fare, di condividere pubblicamente i guadagni, visto la mole di odio virtuale e reale che gli è costata, Roberto spiega di essere principalmente un rompicoglioni. Perché ama sminuirsi. Più probabilmente è un italiano atipico, che non si crogiola come tutti noi nel familismo amorale di cui siamo malati da sempre. Laddove per famiglia si può intendere tutto e di tutto: se hai la mia casacca, la mia tessera in tasca, se sei maschio come me, se fai parte di una congrega alla quale appartengo, tutto è permesso. Difendere gli evasori perché ci somigliano è come cercare giustificazioni al patriarcato per banali questioni di cromosomi in comune o promettere egualitarismo e merito per poi legittimare gente che ferma i treni dove gli fa più comodo.
Da quando viviamo in una curva permanente, però, va bene così. «Non penso ci sia qualcuno così coglione da votare contro i propri interessi», diceva Silvio Berlusconi prima della canonizzazione. Andrebbe scritto sotto lo Stellone.
Ieri, per irridere questo tributo insensato al cattivismo di chi si sente fuori dal coro, in realtà stragrande maggioranza, figlio com’è di un gioco al ribasso per cui i bassi istinti, le paure, le furberie, vengono rilanciate dai media per rincorrere il pubblico in una sorta di gioco al massacro reciproco, qualcuno ha equiparato la storia del tassista imprudente al loggionista che ha urlato «Viva l’antifascismo» alla Scala e poi è andato a difendersi in pubblico. Un esibizionista, nel racconto. Anzi due. Certo: tutti abbiamo una vanità che ci governa, talvolta. Ma è paradossale che a parlare di scarsa opportunità (per la grida del 7 dicembre, per Mantovani) sia chi ha fatto dell’apparenza individuale una micidiale macchina del consenso.
Però è vero: qualcosa di paradossale, di estremo, di imbarazzante c’è. Che una frase banale, o un tizio che paga le tasse, siano diventati carne da assalto personale e addirittura oggetto di una pagina di giornale. Quella che avete appena letto.
Il giorno in cui chi paga le tasse e o è antifascista non dovrà più urlarlo, beh, arriverà sempre troppo tardi. Speriamo almeno sia a bordo del taxi di Redsox. —