la Repubblica, 15 dicembre 2023
Putin, finché dura
La conferenza stampa di Putin è perfetta. Uno che può mandare al fronte e a morire 350.000 giovani russi, senza che alcuno si permetta di discutere le sue decisioni, nel tripudio dei media di stato, con canti balli e kermesse più o meno oceaniche, può ben tenere una conferenza stampa dai toni spavaldi. Uno che può far morire migliaia di civili e militari ucraini in nome della denazificazione di un paese che ha scelto l’Europa democratica, uno che può fare una strisciante carneficina di cui non renderà conto finché è al potere, e che può farlo con l’appoggio di un partito comunista della seconda potenza mondiale, di Kim Jong Un, degli ayatollah di Teheran e il gioco di sponda di Orbán ed Erdogan, ci mette poco a salire in palchetto e impartire lezioni di Realpolitik. La sua retorica, in un paese ammutolito dal patriottismo di stato e dalla spietata repressione di ogni dissenso, era stata già messa alla prova in Cecenia, in Georgia, in Crimea e in azioni banditesche di vario conio per la penetrazione del Donbas, e che dire del suo ruolo in Siria e in Africa? Le sanzioni e la reazione di Europa e America, gli aiuti all’Ucraina con il contagocce, come dice lui “a sbafo”, l’ambiguità di Netanyahu (a sue spese, come s’è visto) e di Trump, che incalza a spese di tutto l’occidente, gli consentono questo e altro. Anche la scelta dei tempi è stata perfetta. La guerra di reazione al 7 ottobre a Gaza ha creato un evidente squilibrio. La guerra dei trumpiani nel Congresso Usa lo ha completato. Il cosiddetto sud del mondo va per i fatti suoi, pensa sia possibile lucrare spazi nel disordine americano e occidentale causato dalla guerra in Europa. Quanto è stato fatto per la dipendenza energetica dalle sue risorse, sue personali, e la nuova linea della Germania, della Svezia e della Finlandia, e la combattività polacca e altri straordinari atti di solidarietà non compensano le autolimitazioni delle democrazie pensanti, discutidore, aperte. Il fattore P è peggio del fattore K. Gli oligarchi, anche quelli gradassi, si sistemano in volo. Non c’è bisogno di un ufficio politico o di un comitato centrale. La tendenza a riscrivere la storia c’è sempre stata, in quel paese. Le purghe sono software, ormai, e peggio per Navalny e gli altri del polonio. La sua grande letteratura autorizza piagnistei, vittimismi, eroismi di tutte le fatte. Voleva fare l’agente segreto, lui, e c’è riuscito, dice affettando di doversi perfezionare nel gioco degli scacchi alle prese con un bambino impertinente alto un metro. I dittatori europei degli anni Trenta nutrivano le stesse sicurezze, sebbene avessero ambizioni decisamente maggiori e dalle conseguenze maggiori. È poi successo quel che si sa: hanno perso la partita che sembravano avere in mano. Qualcuno che resista sul serio però ci vuole, e non possono essere sempre i soli inglesi. La partita si giocherà nelle elezioni americane, è evidente a tutti, a lui per primo che sa come votare in quelle elezioni per antica esperienza. Quanto a noi, all’Europa dei liberi e forti, cosiddetta, dobbiamo prendere lezioni dai tedeschi, finché duri il paradosso.