la Repubblica, 15 dicembre 2023
La giustizia ingiusta di Manzoni
In un primo tempo Manzoni pensò di inserire la Storia della colonna infame nel Fermo e Lucia del 1827, come una lunga digressione nel racconto della peste milanese. Giudicato infine troppo lungo, il testo fu poi inserito in appendice all’edizione dei Promessi sposi del 1840. Nel documentarsi sul De peste Mediolani quae fuit anno 1630 di Giuseppe Ripamonti Manzoni si imbatté in una truce vicenda accaduta proprio allora, nel clima di angoscia, terrore, impotenza, sospetto, disperazione della città devastata da una morte implacabile e misteriosa. Era stata una povera donna del popolo a denunciare come untori due malcapitati, un barbiere e un commissario di sanità, che erano stati subito processati, torturati, condannati e, dopo aver subito i morsi delle tenaglie nella carne e l’amputazione di una mano, sottoposti per ore all’atroce supplizio della ruota e infine sgozzati e bruciati, senza alcun conforto religioso. Lo si leggeva nella lapide posta su una colonna eretta dove fu abbattuta la casa di uno dei due, a eterna e gloriosa memoria della giustizia del Senato e della malvagità di quanti avevano disseminato ovunque i loro «lethiferi unguenti».
La ricostruzione manzoniana dei fatti e del processo rovesciava del tutto quella trionfalistica narrazione pubblica per denunciare non solo un contesto culturale dominato da assoluta ignoranza sulle cause del morbo, superstiziosa credulità, ossessione paranoide del complotto, uso della violenza in sede giudiziaria, ma soprattutto sull’arrogante incompetenza di chi aveva emanato quella sentenza e sulla barbarie giuridica di un tribunale più assetato di sangue che di verità, alla disperata ricerca di qualche capro espiatorio da dare in pasto a un popolo atterrito e inferocito. Non a caso nell’età dei Lumi e nella Milano del Caffè quello che era stato concepito come un monumento alla giustizia sarebbe diventato un monumento all’ingiustizia, e l’infamia dei presunti untori si sarebbe trasferita sui loro giudici, tanto che nel 1778 si ritenne opportuno abbattere l’odiosa colonna. L’anno prima, facendo seguito a un editto dell’imperatrice Maria Teresa, Pietro Verri aveva iniziato con quei fatti le Osservazioni sulla tortura (peraltro lasciate inedite fino al 1804 per non scontrarsi con il padre, presidente del Senato, come Manzoni gli rimproverò). Ma già nel 1764 era apparso il gran libro Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria che (per chi non lo sapesse) era il nonno materno di Manzoni.
La storia cambia e con essa cambia il giudizio su uomini e cose, cui si guarda con saperi, esperienze, prospettive diverse. Ma è lecito rovesciare sul passato le certezze di oggi e condannare moralmente gli errori causati dalle certezze di ieri? Qualcuno accusò Manzoni di antistoricismo, di non aver tenuto conto della cultura e della prassi giuridica seicentesche e della diffusa convinzione che gli untori esistessero davvero e che meritassero le punizioni più severe, compresa la tortura, come aveva sostenuto anche il suo amatissimo cardinale Federico Borromeo, il quale peraltro pensava di sconfiggere il morbo con le processioni (che estendevano il contagio) e non con i lazzaretti e le quarantene. E a credere agli untori e ai «lethiferi unguenti» erano stati anche Ludovico Antonio Muratori e Giuseppe Parini.
La questione è ovviamente complessa, perché non c’è «spirito dei tempi» che possa assorbire e pacificare le infinite efferatezze individuali e collettive di cui la storia è costellata. Per questo Manzoni volle guardare oltre l’ignoranza dei tempi, l’orrore della tortura, l’abituale ferocia della giustizia di antico regime (ma senza mai menzionare la prassi dell’Inquisizione né le legittimazioni ecclesiastiche di quella ferocia) per mettere in luce le ineludibili responsabilità morali degli uomini. A questo fine dovette entrare nel merito del processo e sottolinearne le incongruenze, le assurdità, le falsificazioni, concludendo che quella condanna era scaturita solo da «atti iniqui, prodotti (…) da passioni perverse», da «rabbia resa spietata da una lunga paura e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati», fino a generare «la menzogna, l’abuso del potere, la violazione delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’adoprar doppio peso e doppia misura». Quei giudici, insomma, erano andati ben al di là del diritto e della giurisprudenza del loro tempo, avevano ignorato le dottrine dei criminalisti, avevano infranto le regole processuali, accreditato prove inesistenti, vacue dicerie, plateali menzogne, estorto le confessioni con brutali torture, violato il più semplice buon senso pur di sfogare la loro frustrazione, i loro pregiudizi, il loro bisogno di riaffermare un potere in realtà impotente. E lo avevano fatto deliberatamente, per «mantenere l’inganno» sul quale avevano costruito il loro teorema accusatorio, anche a costo di «eluder le leggi, come resister all’evidenza, farsi gioco della probità, come indurirsi alla compassione».
A tutto ciò Manzoni guardava attraverso il prisma del suo moralismo cattolico, che gli impediva di giustificare quelle colpe, di accettare che l’arbitrio e la violenza dovessero imporsi sempre e comunque e che la storia, anziché assistita dalla divina provvidenza come era avvenuto per i suoi sposi promessi («la c’è la provvidenza», dice Renzo nel dare in carità i suoi ultimi spiccioli), dovesse sempre essere scritta dai vincitori. Quello che si respira nelle molte opere a sfondo storico di Manzoni, scrive Prosperi, «è un Romanticismo cristiano, il senso religioso della violenza del potere e dell’infelicità umana su cui si posa soccorrevole la mano della provvidenza». Prosperi guida da par suo il lettore nella genesi della Colonna infame, sottolineando come nello studiare quel delirio collettivo senza ridurlo allo «spirito dei tempi» Manzoni guardasse alla Francia sconvolta dal Terrore, quando il trionfo della Ragione aveva infine generato dei mostri, pronti a ripresentarsi in futuro, come sarebbe poi avvenuto di lì a poco nelle rivoluzioni europee del 1848. A fargli prendere le distanze dalle illuministiche Osservazioni di Pietro Verri fu dunque l’esperienza della Rivoluzione francese, quando le sconfitte militari, le voci di un complotto aristocratico, l’insurrezione vandeana avevano scatenato le stragi di settembre e poi imposto il regno della ghigliottina.