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 2023  dicembre 15 Venerdì calendario

Saul Leiter, il realista astratto

Quando nel 1970 il critico Irving Sandler pubblicò The Triumph of American Painting, libro che consacrò definitivamente l’espressionismo astratto americano, mise in copertina una foto scattata davanti alla Tanager Gallery sulla Decima Strada Est di New York, luogo importante del gruppo. Vi erano raffigurati alcuni artisti seduti sui gradini e tra loro anche Saul Leiter che regge un suo quadro. Nella didascalia dell’immagine Leiter figura come “sconosciuto”, per quanto gli artisti che frequentava si chiamassero Jackson Pollock, Willem de Kooning, Franz Klein. Di Klein si cita una frase detta a Leiter: «Se solo lavorassi in grande, saresti uno dei ragazzi». Adam Harrison Levy, studioso di Leiter, ha scritto che, se esistesse una fotografia dei fotografi importanti della medesima epoca, da Richard Avedon a Diane Arbus e a William Klein, non c’è dubbio che accanto al nome di Leiter figurerebbe sempre la scritta: “sconosciuto”. Tutto questo nonostante sia stato un fotografo importante su Haper’s Bazaar e in altre riviste degli anni Cinquanta e Sessanta.
 
Perché? Saul Leiter, del quale ricorre il centenario della nascita, figlio di un importante rabbino di Pittsburgh, grande commentatore del Talmud, è stato un pittore che s’è guadagnato da vivere facendo il fotografo di moda. Ha fotografato molto per sé, principalmente nelle immediate vicinanze della sua casa di New York ed è diventato celebre solo all’inizio degli anni 2000 a settantasette anni quando le sue fotografie a colori sono diventate famose facendolo uscire dalla penombra in cui era vissuto per oltre sessant’anni. David Campany, autore di un libro decisamente cool, Sulle fotografie (Einaudi), l’ha incluso nel suo Olimpo di autori di tutti i tempi e le epoche con un meraviglioso scatto del 1959 preso a Parigi in un caffè. Mostra una donna mentre scrive a mano su un foglio: toni pastello, morbidi ed efficaci. Al centro della foto non c’è lei, bensì una bottiglia di selz e la tazzina appoggiati sul tavolino. Campany si domanda se in questa foto sia più importante il colore oppure i dettagli inclusi nel rettangolo. Suggerisce che Leiter fotografa il colore – la sua «disposizione cromatica» – e solo dopo quello che c’è lì intorno. L’ipotesi che il figlio del rabbino, destinato a sua volta a diventare rabbino, come generazioni di Leiter, segua soprattutto il colore e, una volta trovatolo metta a fuoco e scatti così che dentro c’è quello che c’è, non è poi così peregrina. Tuttavia la lettura di Campany si rivela parziale se si guardano in Saul Leiter. La retrospettiva (a cura di M. Erb e M. Parillo, Contrasto, pp.351, euro 69) le fotografie con cui cominciò negli anni Quaranta del XX secolo, dopo aver debuttato come pittore, esser stato messo al bando dal gran rabbino di Pittsburgh ed essersi allontanato di casa. Sono fotografie in bianco e nero delle strade di New York, strane per il punto di vista, il taglio, gli oggetti e le persone.
Il fatto è che Leiter queste immagini non le mostrò che a pochi amici e solo dopo aver pitturato con colori e pennellate, che fanno pensare a Bonnard e Vuillard, pensò bene di far vedere il lavoro di decenni. Ora, come documenta questo sontuoso volume, un suo posto nella fotografia del XX secolo Leiter ce l’ha e lo si celebra come il fotografo del colore, delle automobili rosse che schizzano via, delle persone viste dietro a vetri appannati, dei riflessi delle vetrine, dove ogni scatto pare includere una serie di campiture stese con la spatola piuttosto che con il pennello. Una volta Leiter ha sentenziato: «La fotografia trova le cose. La pittura è diversa, crea qualcosa».
Come dargli torto? Ma c’è modo e modo di trovare, e la sua fotografia è estremamente creativa per l’inquadratura, l’uso del colore, la presenza della pioggia, le sfocature, le immagini rifratte, una fotografia che «cattura una complicata miscela di vulnerabilità, tenerezza e forza nei suoi soggetti» (Adam Harrison Levy), osservazione che risulta vera soprattutto nei ritratti e nei nudi. Questi ultimi, coltivati sin dalla fine degli anni Quaranta, sono usciti dalle sue scatole solo nel 2014 per entrare in un volume intitolato In My Room, l’anno dopo che l’artista era morto nella sua casa nell’East Village di NY. La migliore definizione della sua opera si condensa in una formula icastica: “intimità impersonale”. Leiter c’è in ogni suo scatto, così che la sua opera, quadri compresi, appare una sorta di grande autobiografia senza io. Dappertutto c’è lui con il suo sguardo spiazzante, accorto e ponderato, freschissimo per quanto in apparenza complicato. Possiede infatti una naturalità del guardare, che è quella di chi si guarda intorno cogliendo attimi e momenti unici e insieme ripetibili.
Perché non ha avuto il successo che meritava, perché non è apparso là dove era e quando c’era? Una volta a un suo intervistatore, che l’aveva scoperto e l’incalzava con domande sulla sua ritrosia strutturale, ha risposto laconico: «Aspiravo a non essere importante». Guardando le sue fotografie si coglie che invece aspira sempre a qualcosa. Interrogato sul suo tardivo riconoscimento ha spiegato che probabilmente tutto è dipeso dalla disapprovazione del padre. Questi s’era messo a piangere dopo la sua prima mostra nella città natale e aveva esclamato qualcosa come: «Adesso tutti sapranno». Disonorato dal figlio artista, l’aveva rigettato, tanto che, dopo il trasferimento a NY, Saul, “il fantasma rabbinico”, come s’è definito, non aveva più avuto molti contatti con la famiglia. Una sorta di complesso edipico al contrario, dove la vergogna d’essersi sottratto al suo destino d’eccellente talmudista l’ha portato a provare il desiderio di evitare il successo come artista. Ora le sue bellissime immagini ci propongono un modo di vedere originale: «Guardo le cose più insignificanti e vi trovo bellezza». Basta osservare la serie delle calzature dei lustrascarpe di NY del 1951 – scarpacce consunte e male in arnese – per capire cosa significa questo modo di guardare. Per definirlo, se proprio non se ne può fare a meno, si può usare la fulminate enunciazione di Michael Greenberg: Leiter è un «realista astratto»; le sue composizioni sono astratte, mentre i suoi soggetti sono radicati nel luogo e nella realtà. Ma non è forse questa la perfetta descrizione d’un rabbino che applica alle pagine del Talmud l’astrazione del ragionamento per ottenere lumi sui comportamenti concreti da mantenere nella vita? Talmud o meno, l’effetto è quello «di arrivare, in modo misterioso e incedibile, al di sotto della superfice delle sue fotografie».