Corriere della Sera, 14 dicembre 2023
Bugiardo, delizioso Zeno. Vivo perché temeva la morte
Aveva paura di invecchiare Zeno, il personaggio di Svevo. Lo dice esplicitamente, a un certo punto: «mi colse allora un’altra piccola malattia da cui non dovevo più guarire. Una cosa da niente: la paura d’invecchiare e sopra tutto la paura di morire». E lo si capisce anche dalle sue iperboli, dalle sue esagerazioni, da quel suo definirsi vecchione, vegliardo, patriarca, quando è un sessantenne che oggi non diremmo neanche anziano. Esorcismi.
Eppure il romanzo di Svevo, è invecchiato benissimo. Centenario quest’anno, è ancora fresco, intrigante, provocatorio. Non sembra accusare nessuna stanchezza. Anzi, La coscienza di Zeno è un libro di cui si parla ora di più – e meglio – di quanto si sia fatto nei precedenti cento anni. E non se ne parla soltanto. Se ne scrive, lo si porta in scena, se ne fa il protagonista di documentari filmati e di trasmissioni radiofoniche, l’ispiratore di concerti di musica sinfonica, il punto focale di mostre d’arte e di documenti, di concorsi di scrittura creativa, tavole rotonde, convegni, in Italia e fuori.
Il segreto di questa vitalità? Non è facile dirlo. Forse, con un po’ di gusto del paradosso, potremmo dire che è proprio quel pensiero fisso alla mortalità. Svevo è uno scrittore del limite, un artista che non schiva mai il pensiero della fine. «Sai come il pensiero della morte mi accompagni sempre» scrive nemmeno quarantenne alla ventiseienne sposa Livia. Ma non è un pensiero triste, attenzione. Niente a che vedere con quella famosa, stupida etichetta di «pessimismo» che rimane appiccicato ad autori come Svevo e Leopardi, o Michelstaedter, spesso ulteriormente svilito dal richiamo a certe infermità. Ché Leopardi, si sa, era gobbo e malaticcio. Per Svevo, al contrario, il pensiero della morte «dev’essere quello dell’uomo sano. Vivo e forte doveva essere quel pensiero. Non malato». Perché quello della fine è un pensiero che alla vita dà un orizzonte di senso.
Certo, rimane, per lui e per tutti gli uomini, quel piccolo, fastidioso problema che Zeno descrive con il suo solito paradossale candore: la paura di morire. I ciarlatani di cui Svevo scrive con divertimento appena celato – gente che negli anni Venti trapiantava testicoli di scimmia sui vecchi per farli ringiovanire – non possono fare nulla per allontanarla. Ma non ce n’è nemmeno bisogno. Il metodo per sfuggire alla morte fisica c’è, ed è noto da millenni. Si chiama scrittura. Lo stesso Zeno «vecchione» lo sa bene: bisogna scrivere perché almeno la vita «non resterà quale è priva di rilievo, sepolta non appena nata». Ma il prodotto di questa scrittura? Il romanzo di Zeno – o di Svevo, è uguale – come si fa a farlo durare? Come si può sottrarlo a quella seconda morte chiamata oblio, che consegna le parole al nulla? La strategie che Svevo adotta ancora ci tengono.
Il suo segreto, ci siamo arrivati, è iniettare l’infinito nel finito attraverso la sua predilezione per le forme aperte, per ciò che si immagina stare dietro o dopo il testo, per le polarità irrisolte, per il paradosso, i conflitti insanabili, le alternative indecidibili. È buono o cattivo Zeno? Amava o odiava il cognato rivale Guido? E la moglie? Ha inteso punirlo con uno schiaffo ultimativo, il padre, o si è accasciato nello spasmo dell’agonia e lo ha colpito accidentalmente? E l’Ultima Sigaretta? Diventerà mai effettiva o rimarrà solo una fabbrica di tempo illusorio attraverso il noto meccanismo della procrastinazione?
Il sapere paradossale di Zeno porta alle estreme conseguenze le riflessioni che abbiamo incontrato, soprattutto quando si incontra con il pensiero della malattia: «Si capisce che è meno malato chi ha poco tempo per esserlo», dice. Ma sta parlando dell’uomo d’affari e dei suoi impegni, o del vegliardo che, avendo poco tempo di fronte a sé, risulta paradossalmente meno ammalato del giovane, affetto dal morbo dell’illusione? «La miglior prova ch’io non ho avuta quella malattia – ride Zeno della diagnosi edipica del Dottor S. – risulta dal fatto che non ne sono guarito». I paradossi di Zeno fanno venire in mente i koan del pensiero zen o quelli sull’impossibilità del moto di Zenone di Elea. Tutta roba che dovrebbe mettere la mente in stand-by, bloccare la sua inesausta e vacua attività per consentirgli di accedere a una dimensione più autentica. Ma il loro risultato è di tenere il testo in tensione, di renderlo indecidibile, mobile, e quindi vivo. Se Zeno dice che ha «inventato» i suoi ricordi d’infanzia per il suo psicanalista, il Dottor S., è sincero o mente? Il paradosso del bugiardo, paralogismo perfetto, rimane al centro del romanzo e lo rende magnetico. Quando ci spiega, paraculo, che le sue memorie avrebbero tutt’altro aspetto se le avesse scritte nel suo dialetto triestino, crea il fantasma di una seconda Coscienza, più autentica di quella che ha in mano il lettore che, da quel momento, la desidera. Una rete di delizioso, ironico, frustrato desiderio imbriglia il lettore di Zeno, e alimenta la sua longevità.