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 2023  dicembre 14 Giovedì calendario

Bianciardi l’intellettuale insoddisfatto

Il vincitore del premio intitolato allo scrittore toscano sottolinea il suo ruolo essenziale nel Novecento italiano
«Perché ho fatto questo viaggio in Africa? La spiegazione non è semplice. Le mie cose andavano sempre peggio, sempre peggio, e a un certo punto erano diventate un viluppo inestricabile»: quando, alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, Luciano Bianciardi traduceva Il re della pioggia di Saul Bellow, plasmando da par suo uno dei capolavori dello scrittore americano, forse segretamente s’immedesimava nel protagonista, anche se in apparenza, dopo lo straordinario successo della Vita agra (1962), era diventato famoso e, perlomeno giudicando dall’esterno, non avrebbe avuto nessun motivo di recriminazione. Eppure dentro di sé sentiva crescere il tarlo dell’insoddisfazione, quasi non riuscisse a tenere uniti insieme il crescente riscontro di pubblico che personalmente stava ottenendo con la percezione, al tempo stesso lucida e trasognata, di un clamoroso fallimento politico collettivo. Con ogni probabilità, se volessimo comprendere il ruolo essenziale di Bianciardi nel Novecento italiano, dovremmo affrontare innanzitutto questo nodo spinoso; il luogo espressivo ideale per farlo potrebbe essere proprio l’esordio narrativo: Il lavoro culturale (1957). L’anno prima era uscito
I minatori della Maremma, composto con Carlo Cassola, nel quale era rievocata l’esplosione del pozzo di Ribolla, dove persero la vita 43 minatori, evento decisivo che di fatto pose fine all’aura incantata della vita provinciale del giovane scrittore spingendolo a trasferirsi da Grosseto a Milano.
Nel momento in cui Bianciardi, dopo aver dato alle stampe quel testo militante, si dispose a ripercorrere la propria educazione sentimentale, sentì tutta la possibile atrofia del quadretto intimista che aveva disonorato gran parte della prosa italiana fra le due guerre, impostandola alla maniera di un sofisticato divertimento fantastico, nella sostanziale diserzione spirituale rispetto al totalitarismo imperante, quindi rispose con il sarcasmo beffardo che, serpeggiando fra le sue prime pagine, conferisce loro una potenza inconsueta da molti critici puntualmente riconosciuta. Il gruppo di eruditi impegnati a indagare sulle origini del paese toscano in cui vivono, negli anni appena successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, resta negli occhi del lettore come una sigla indimenticabile di gretto provincialismo. Tuttavia Il lavoro culturale, lo sappiamo, più che il malinconico anacronismo degli attardati studiosi accademici, sentenzia la sconfitta di coloro che gli si contrapposero.
Chi erano questi giovani visionari,dallo stesso autore collocati nella “generazione bruciata”? Appena usciti dalla guerra, avevano rinnegato il fascismo, diversi di loro vantavano l’esperienza nella Resistenza, in tanti tenevano in tasca la tessera del Partito d’Azione. Magari dopo essersi rimessi frettolosamente in carreggiata, adesso stavano dalla parte giusta della Storia, o almeno così credevano. I carri armati sovietici non erano ancora entrati a Budapest. «Noi andavamo spesso a vedere crescere la nostra città, a vederla avanzare vittoriosa dentro la campagna, contro la campagna, a conquistare altro terreno» scrive Bianciardi, che era a tutti gli effetti uno di loro. Il tenente Bucker, liberatore con la bandiera a stelle e strisce, nella vita civile faceva il professore: osservando la periferia del centro toscano, non aveva esitato a dire che gli ricordava Kansas City. E questo aveva mandato in sollucchero i nuovi intellettuali, al punto tale da spingerli a sottoscrivere, nelle sezioni del partito comunista, la dichiarazione di un’imprevedibile rinascita: «Le origini della città? L’anno di fondazione? Ma era il 1944, né più né meno». Altro che etruschi! Bianciardi invece, poi travolto, come Dylan Thomas, dal dramma etilico che nel 1971 lo condusse alla morte a soli quarantanove anni, aveva fatto presto a veder svanire qualsiasi sogno palingenetico. Gli era bastato osservare i suoi compagni, coi quali aveva diviso tutto, compreso il simbolico fratello Marcello: quegli ex ragazzi di talento erano entrati nei meccanismi della società industriale in modo rapidissimo, senzavergogna. La miccia che accende il furore distruttivo della trilogia della rabbia (Il lavoro culturale, L’integrazione, La vita agra )parte da lì, dai cineclub dove si progettavano altri modi di stare al mondo, nel tentativo di superare la spaccatura fra le “due Italie”: quella meridionale, tradita dalle promesse garibaldine e quella settentrionale, locomotiva industriale. La tremenda responsabilità che i padri costituenti avevano consegnato alle future generazioni era rimasta, agli occhi di Bianciardi, clamorosamente disattesa, ben prima che si bagnassero le polveri sotto alle finestre del torracchione ambrosiano: il dettato della Vita agra si trasforma in un referto sui desideri irrealizzati.
A conti fatti resta un mugugno inespresso nella prosa bianciardiana: il che da una parte la distingue dal resto della compagnia, dall’altra ne sconvolge gli attributi realistici depositando sull’opera un’ipoteca caricaturale alla Honoré Daumier: in ogni ritratto spunta il ghigno dell’amarezza, come se lo scrittore fosse destinato alla solitudine astiosa. Ma non era stata questa l’ambizione primaria!
Lo si capisce da come Bianciardi si avvicinò a don Lorenzo Milani in un rapporto che può sorprendere solo chi non lo conosca bene. Nel momento in cui su Critica sociale,nel gennaio 1959, recensisce Esperienze pastorali, il grande trattato antropologico che rischiava di essere mandato al rogo dal Sant’Uffizio, trattiene a stento un moto di ammirazione nei confronti di quello strano prete, ribelle ubbidientissimo, a lui in apparenza così lontano, ma anch’egli animato dalla strenua volontà di cambiare le sorti del mondo: «Un moralismo che noi non accettiamo nei suoi fondamenti dottrinari, ma che tuttavia auspichiamo di veder sorgere fra chi accetta la dottrina cristiana e con il quale siamo certi di poter discutere con reciproco frutto».