La Stampa, 14 dicembre 2023
Allen l’incompreso
Quando il comico americano Mort Sahl, socialista e per questo marginalizzato, decise di ritirarsi dalle scene, lo fece lasciandosi dietro un monito: «I geni controversi diventano geni quando smettono di essere pericolosi e restano controversi solo finché la loro ambiguità genera profitto; dopo vengono definiti inaccettabili».
Non c’è niente di più divisivo dell’opinione su un umorista in vita e in attività, e non c’è niente di più unificante del suo ricordo dopo la morte. Quando Woody Allen, che il 30 novembre ha compiuto ottantotto anni, morirà – tra molto, molto tempo – verrà perdonato, e di lui rimarrà solo il genio. Per ora, la sua ambiguità lo condanna all’incomprensione, anche quando sembra che non rimanga più niente da capire e che tutto sia, ormai, perfettamente chiaro.
Da decenni, le definizioni sul suo conto si rincorrono e si sprecano: «il più europeo dei registi americani», «il più sferzante sguardo umoristico contemporaneo», «il più sincero tra gli uomini che hanno qualcosa da nascondere», «un criminale» e via così, dalla santificazione dell’artista all’assoluto disprezzo per l’essere umano, senza mai prendersi un momento per considerare oggettivamente il professionista, l’artigiano, l’abile cesellatore di parole che già nel 1955, quando Sid Caesar gli procurò il primo assegno, si muoveva sull’onda del ritmo della comicità con l’istinto naturale di un ballerino di samba al primo battito di un’atabaque.
«Era impressionante», diceva di lui lo sceneggiatore Norman Lear, morto lo scorso 5 dicembre a 101 anni, «Si metteva alla macchina da scrivere, apriva una risma di fogli e non smetteva finché non l’aveva riempita tutta». Di quello che ne risultava, venivano scartate sì e no due battute su dieci. Pare che una volta, attorno al primo periodo televisivo, leggendo una pagina di un suo monologo, il drammaturgo Neil Simon sia scoppiato in una crisi di riso presto declinata in un pianto a dirotto. «Quando vedo qualcosa di bello, mi commuovo sempre – avrebbe dichiarato -. E anche quando mi rendo conto che per me non è rimasto niente da scrivere».
Dalla frenesia di quei primi tempi, fatti di incontri nei diner di New York, battute passate sottobanco tra una zuppa di matzah ball e un caffè slavato, autori scambiati come figurine dai comici che fumavano sigari lunghi un braccio, sono uscite le prime tre, bistrattate, maltrattate e preziosissime, raccolte letterarie di Allen: Saperla lunga, Rivincite e Senza piume. Ci erano voluti un paio di decenni e l’affermazione prima come stand-up comedian e poi come regista per tornare sui passi del genio della scrittura, ma tra il 1971 e il 1980 la pulsione creativa che aveva già generato tre comedy album di devastante franchezza, Prendi i soldi e scappa e Il dittatore dello stato libero di Bananas, era tornata su carta per restituire profondità a un processo creativo tutt’altro che scontato. «Per arrivare a una battuta efficace – diceva Sahl – bisogna scriverne in media quattordici disgustose». Allen teneva un ritmo più alto, e la percentuale di scarti era decisamente ridotta rispetto alla norma. Era benedetto da un senso del comico quasi assoluto e dotato di un’etica del lavoro che in pochi dei suoi omologhi conoscevano.
Quando nel 1973 Umberto Eco lo propose alla Bompiani per la sua collana “Amletica leggera”, introducendolo come «un everyman per happy few», aveva decisamente avuto l’intuizione giusta. L’esecuzione fu disastrosa. Le raccolte uscirono in traduzione parziale, infarcite di errori, licenze poetiche a dir poco fantasiose, e ammantate di un’artefatta patina di umorismo nazional popolare, che suona fuori posto come quando nel doppiaggio si assegnano ai personaggi marcati accenti dialettali italiani per rendere (male) una cadenza. Andava capito, naturalmente, e nessuno da questa parte dell’Oceano sapeva ancora veramente chi fosse quell’ometto nevrotico e petulante. Nemmeno lo stesso Eco, figurarsi i suoi traduttori. Il concetto di stand-up comedy ancora non esisteva e quello di umorismo letterario era in qualche modo limitato alle risate a denti stretti di Ennio Flaiano e Achille Campanile: roba per pochi, raffinati, estimatori. Occorreva decidere se piazzare Allen tra gli scaffali polverosi e poco frequentati dell’umorismo, oppure trasformarlo in una sorta di barzellettiere popolare dall’aria vagamente internazionale. Quando nel 1977 uscì al cinema Io e Annie, seguito nel 1979 da Manhattan, fu chiaro che la collocazione scelta era del tutto inadeguata, ma ormai il pubblico italiano – che comunque non si era fiondato sui libri di Allen con tutta questa foga – era pronto a dimenticarsi nuovamente dello scrittore, per concentrarsi sulla consacrazione del genio cinematografico del quale, ancora oggi che esce in sala un piccolo disastro come Un colpo di fortuna, non si può mai davvero parlare male.
Stranamente, non si può mai parlare male nemmeno del musicista mediocre, che riempie il Blue Note di Milano di emozionati appassionati che fremono dalla voglia di vederlo dal vivo, paradossalmente nell’unico luogo nel quale Allen non esercita la sua vera professione e non dice una parola. Forse ne vale la pena: almeno nei jazz club è libero dalle etichette e dalle appropriazioni.
Quelle prime terribili traduzioni sono poi state riprese nel 2004 e ripubblicate a cura di un altro umorista controverso e a tratti geniale come Daniele Luttazzi. Ora resistono, accompagnate dalle due appendici a corredo Pura anarchia, del 2007, e Zero Gravity, del 2022, ripubblicate da La Nave di Teseo, senza però che mai fosse restituita loro la dignità letteraria sotto la quale sono nate. Restano da una parte i libri comici di un comico famoso, e dall’altra la messa in pratica di un’apologia. Sfoggiate da chi vuole dimostrare di aver preso una posizione non potendo farsi vedere in una sala cinematografica ma volendo distinguere, abbastanza platealmente, l’uomo dall’artista. Sono lette da relativamente pochi e sempre, purtroppo, senza mai rendere giustizia a quel lavoro artigianale che è la scrittura comica. Quella sofferenza solitaria che è cercare di far ridere senza la promessa di assistere al risultato. «Sono nato per scrivere», diceva S.J. Perelman, al quale Allen si è sempre ispirato, «L’umorismo è una felice casualità». Forse, prima o poi, Allen verrà considerato ovunque come quello che è: un professionista assoluto, che abbiamo avuto la fortuna sfacciata di veder passare.