il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2023
Il finto trionfo di Mbs e Petrostati
Ha comprato le star del calcio mondiale. Si è aggiudicato l’Expo 2030, stracciando l’Italia con 117 voti per Riad contro i 17 per Roma. Mohammad bin Salman (MBS), principe ereditario saudita, è la stella più brillante nel brillante firmamento delle petromonarchie del Golfo. Eppure solo tre anni fa non era affatto così.
Col tracollo dei consumi di petrolio durante la pandemia Covid (in un mese scesero di 20 milioni di barili al giorno, mai successo prima), fosche nubi si addensavano su Riad. L’Arabia Saudita era impegnata in un sanguinoso quanto impopolare conflitto in Yemen, le raffinerie di Abqaiq e Khuarais erano state fatte saltare in aria nel settembre del 2019 da dieci droni con simpatie iraniane interrompendo metà della produzione petrolifera saudita, negli Usa era stato eletto il democratico Joe Biden, che dichiarava di voler “far pagare un prezzo” ai sauditi e “renderli i paria che sono” per l’efferato omicidio del giornalista Jamal Khashoggi.
Il vento ha iniziato a girare col rimbalzo delle economie mondiali nel periodo post-Covid, per poi cambiare bruscamente dall’inizio della guerra in Ucraina. Il mondo industrializzato si è dimostrato drogato di gas, petrolio e carbone, presto tornati a massimi storici. L’alleanza dei maggiori esportatori di petrolio, l’Opec+ creata nel 2016, si è rinsaldata grazie alla cooperazione fra Arabia Saudita e Russia, e si allargherà ulteriormente al Brasile, nono produttore mondiale di petrolio. Acquisisce maggior peso il “Sud Globale”, un insieme assai eterogeneo ben rappresentato dal gruppo dei Brics, che quest’anno ha deciso di allargarsi invitando, non a caso, Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi. Con l’ingresso di questi petroStati i Brics, già primi per ricchezza mondiale e per popolazione, potrebbero vantare il 43 per cento della produzione mondiale di petrolio.
Alla fine del 2023, nel cinquantesimo anniversario dello “choc petrolifero”, in una situazione simile di aumento dei prezzi di energia e prodotti agricoli, crescita dell’indebitamento dei Paesi in via di sviluppo, il tutto condito dal riesplodere del conflitto in Palestina, sembra delinearsi ancora una volta lo scenario di un potente fronte di petroStati guidato dall’Arabia Saudita in sinergia con la Russia, nel quadro di rivendicazioni di autonomia del Sud globale, questa volta supportato da nuove potenze economiche, in prima fila la Cina. Ma è tutto oro quello che luccica per le petromonarchie? Le entrate di tutti i petroStati, dall’Arabia Saudita all’Algeria, restano legate quasi esclusivamente alle vendita di idrocarburi, dunque a volumi e prezzi di vendita di gas e petrolio e alle loro prospettive future. Al contrario che nel 1973 però, il coltello dalla parte del manico lo hanno questa volta i “consumatori” e non i “produttori” di petrolio.
Nel 1973 i prezzi del greggio lievitarono di oltre quattro volte, i consumi non diminuirono e i prezzi si mantennero altissimi per il resto del decennio, impennandosi ancora una volta nel 1979 dopo la Rivoluzione iraniana. All’impennata dei prezzi del petrolio nel 2022 (nel maggio superarono i 120 dollari al barile) è seguita invece una loro lenta, quanto inesorabile, diminuzione. I livelli storicamente alti (ma non altissimi) di oggi, riescono a essere mantenuti solo grazie a estenuanti negoziati nell’Opec+ che richiedono tagli volontari alla produzione di Arabia Saudita e Russia, mentre altri Paesi – in primo luogo africani come Angola e Nigeria – sono refrattari a ogni limitazione. L’Opec continua a sostenere, in aperto contrasto con le valutazioni dell’Agenzia internazionale per l’energia, che i consumi di idrocarburi non diminuiranno entro questo decennio, anche perché vi sarà una crescita sostanziale delle domanda nei mercati in via di sviluppo, in particolare in Africa. Ci sono alcuni fatti che fanno dubitare del loro ottimismo: l’aumento degli investimenti nelle rinnovabili in Europa, Stati Uniti e Cina è un fatto, così come gli impegni alla “transizione dalle fonti fossili nei sistemi energetici” appena confermati nella Cop 28 (tra il 2013 e il 2022 le emissioni di CO2 sono aumentate dello 0,5% l’anno, contro il 2,6% del decennio precedente); è un fatto che il numero di Paesi che producono almeno 100 mila barili al giorno è lievitato rispetto al 1973; è un triste fatto anche che la crescita economica dei Paesi africani, schiacciata dal debito internazionale, stenti a manifestarsi. Il rischio per i petroStati è semmai che, appena dovessero iniziare a ridursi i consumi mondiali di gas e petrolio in modo strutturale, essi finiscano in una terribile competizione gli uni con gli altri per mantenere le proprie quote di produzione facendo inabissare i prezzi: dei progetti megalomani come l’avveniristica città saudita sul mar Rosso Neom, interamente foraggiati dalla rendita petrolifera, non resterebbero che le laute parcelle dei consulenti McKinsey.
In secondo luogo il “modello MBS” di utilizzo della rendita petrolifera è carico di rischi. Fino al 2015 l’Arabia Saudita aveva un fondo sovrano, il Public investment fund (Pif), dalle dimensioni assai limitate. Con l’ascesa del principe ereditario a esso sono stati conferiti asset sempre più consistenti, in particolare l’8% di Saudi Aramco privatizzata a fine 2019 (società petrolifera che da sola genera tutte le entrate del governo saudita), che lo ha reso il quinto fondo sovrano al mondo con l’ambizione di diventare il primo entro il 2030. Il Pif, che oggi vale 700 miliardi di dollari ed è gestito in modo assai opaco, è però cresciuto attraverso un meccanismo rischioso. Aramco viene incoraggiata a macinare sempre maggiori utili e dividendi (e produrre sempre più petrolio) per fare crescere il Pif, ma – e qui sta il problema – per macinare utili e dividendi Aramco dovrebbe pagare sempre meno tasse, che sono però la leva che garantisce al popolo saudita il suo attuale tenore di vita. I proventi di una risorsa naturale (il petrolio) che appartiene a tutti i sauditi potrebbero venire impiegati nel tempo delle vacche grasse piuttosto arbitrariamente in progetti senza sostenibilità di lungo periodo: il Pif è il giocattolo del principe, ma i giocattoli si rompono.
In terzo luogo la distanza tra le leadership arabe, inclusa quella saudita, e i popoli arabi che invocano un supporto concreto alla causa palestinese rischia di moltiplicarsi per ogni bombardamento israeliano su Gaza. La famiglia reale saudita è restata saldamente al potere dalla creazione del Paese nel 1933, ma durante la Guerra del Kippur del 1973 il re saudita Faisal si comportò in modo assai differente da MBS oggi, intestandosi il taglio della produzione di petrolio e l’embargo nei confronti dei Paesi che sostenevano Israele. Le petromonarchie del Golfo giustificano la loro sostanziale inerzia col fatto che un embargo non avrebbe conseguenze perché le reti di approvvigionamento sono oggi più diversificate e flessibili e perché alcuni Paesi – Emirati Arabi, Bahrein e Marocco – hanno ormai normalizzato le relazioni con Israele. Però la causa palestinese, nonché la protezione dei luoghi sacri dell’Islam in Palestina, è talmente connaturata all’identità degli Stati arabi, che leadership che appaiono imbelli e subalterne all’Occidente, specie in un momento di alti prezzi del petrolio, rischiano di vedersi destabilizzate dalla nascita di nuovi movimenti sociali e politici.
Se l’Occidente è sempre più isolato, dall’Ucraina all’Africa subsahariana passando per Gaza, è altrettanto vero che la folgorante ascesa delle petromonarchie è un fenomeno che ha una forte componente mediatica, ma nella sostanza resta radicato nell’era del petrolio, che è comunque destinata a un declino più o meno rapido e turbolento.