il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2023
In morte di Juliano
Lo chiamavano Totonno, il nome di tutta una vita: Antonio Juliano, ex capitano del Napoli, una vita in maglia azzurra con l’appendice di una stagione a Bologna, morto ieri all’età di 80 anni. Un hombre vertical, una vera bandiera. Dopo il campo, un percorso da dirigente, con due colpi che hanno segnato la storia del calcio italiano, non solo quella del Napoli: prima Ruud Krol, poi Diego Armando Maradona. Senza il pressing intelligente di Totonno, el Pibe de Oro non avrebbe mai indossato la maglia azzurra.
San Giovanni a Teduccio, allora periferia, oggi inghiottita da Napoli. Il papà con la salumeria che, visti i tempi, era come possedere una gioielleria: non ti arricchivi, ma almeno non si moriva di fame. La chiesa di San Giovanni Battista simbolo del passato; la fabbrica della Cirio e una delle sezioni del P.C.I. più importanti del Sud Italia segni dei tempi moderni: Totonno crebbe tra sacro e laico, con la passione sconfinata per il calcio. Amava il Napoli e il Napoli fu: la trafila nelle giovanili, l’aggregazione in prima squadra con il Petisso Pesaola, il debutto in serie A il 17 febbraio 1963 nell’1-5 in casa con l’Inter, la fascia di capitano a 23 anni, 17 stagioni di fila in maglia azzurra, per un totale di 505 presenze e 38 gol. Nel 1978, trentaseienne, il trasferimento al Bologna, dopo aver litigato con il presidente Corrado Ferlaino e l’allenatore Gigi Di Marzio: un campionato appena, con l’apporto decisivo di una rete che evitò ai rossoblù la caduta in B. Ricomposti i rapporti con Ferlaino, l’approdo in società e l’incarico di direttore sportivo. Nel 1980, il colpo Krol. Nel 1984, il capolavoro Maradona.
Totonno piazzò le tende a Barcellona, quando il Napoli decise di provare a fare l’acquisto che avrebbe cambiato la storia del club. Il pressing su Maradona fu costante, ma intelligente. Juliano conosceva la psicologia dei campioni: il suo spessore umano conquistò Diego. La mossa finale fu presentarsi a casa del presidente Gaspart. Il grande capo del Barcellona ricevette Juliano e fu raggiunto l’accordo definitivo per il trasferimento del fuoriclasse argentino a Napoli. Ferlaino mise il denaro sul piatto: Juliano aveva messo l’ingegno napoletano e la sua credibilità. La storia non ha sempre buona memoria, ma le coincidenze talvolta fanno giustizia: nel febbraio 2017, in Viale Due Giugno, cuore di San Giovanni a Teduccio, l’artista napoletano Jorit ha realizzato un enorme murale dedicato a Maradona e intitolato “Diego”. Anche Totonno meriterebbe un murale. Come ha ricordato un monumento come Dino Zoff “Totonno era un tipo tosto, una persona autentica, con un temperamento da condottiero. Giocava un calcio concreto, senza concedere spazio alla teatralità”.
Juliano ha attraversato il football italiano in compagnia di un esercito di campioni. Nel suo ruolo, c’era un pieno di grandi centrocampisti, tra numeri 8 e numeri 10: Rivera, De Sisti, Bulgarelli, Capello, Frustalupi, Greatti, Cordova, Merlo, Lodetti, Ferrini. E poi, tra gli stranieri superstiti alla chiusura delle frontiere del 1966, Suarez, Haller, Sormani, Nenè. Juliano partecipò a tre Mondiali, ma giocò solo gli ultimi 16 minuti della finale 1970 contro il Brasile. In Inghilterra, fu giudicato troppo giovane. In Germania, troppo su con gli anni. Eppure, fu uno dei pochi centrocampisti dell’epoca a non soffrire il passaggio da ritmi più paludati a quelli sostenuti del calcio olandese. A modo suo, Totonno fu un precursore: difendeva e aggrediva, recuperava e rilanciava, gestiva e tirava. Diede l’addio all’azzurro proprio contro l’Olanda, a Rotterdam, il 20 novembre 1974: 3-1 per gli “arancioni”. Il momento migliore in nazionale coincise con l’europeo 1968, quello del primo titolo continentale dell’Italia: giocò la finale con la Jugoslavia finita 1-1, ma saltò la ripetizione, 2-0 con i gol di Anastasi e Riva. Juliano pagò in azzurro la debolezza politica del club: a quei tempi, comandavano in modo pesante Inter, Juventus e Milan.
Nei ricordi a caldo con personaggi che conoscevano bene Totonno, emerge il quadro di un uomo tutto d’un pezzo, di poche parole, un napoletano atipico, ribattezzato, non a caso, il “tedesco”. Non amava sproloquiare in pubblico perché avvertiva i limiti di una scolarità incompiuta. Gli bastava poco però per farsi sentire. Quando alla viglia di una sfida contro l’Inter gli chiesero quanto pesasse la minaccia di un campione come Suarez, lui rispose: “Suarez è Suarez e Juliano è Juliano”. Negli ultimi vent’anni, il suo allontanamento dal calcio è stato progressivo. Rievocare i tempi andati lo annoiava. Non aveva più voglia. Fumava tanto e parlava poco. Schivo, silenzioso, lontano anni luce dalla deriva dei social dove pure in queste ore è stato celebrato. Lo merita: è stato davvero un grande del calcio.