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 2023  dicembre 12 Martedì calendario

Intervista ad Achile Bonito Oliva

Per i quarant’anni dalla morte di Joan Mirò, che cadono il giorno di Natale, al Mastio della Cittadella di Torino c’è una mostra sul pittore surrealista fino al 14 gennaio. La selezione delle oltre cento opere provenienti da collezioni private è del critico Achille Bonito Oliva, 84 anni, che oggi alle 15 all’Accademia Albertina di Belle Arti torinese terrà la lectio magistralis Il sogno dell’arte.A cosa farà riferimento per parlare di questa dimensione onirica?«A Mirò. Il suo procedimento è molto onirico nell’iconografia. Nella sua pittura Mirò crea un altrove smaterializzato, con forme e materiali che non hanno peso. La sua opera risulta come una risurrezione. Mirò rivitalizza e restituisce movimento a oggetti e segni accostandoli tra loro, senza giustificazione».Da dove nasce il suo interesse per questo pittore?«Proprio da questa sua continua dimostrazione dell’arbitrio dell’arte. Avendo insegnato a lungo Storia dell’arte contemporanea a La Sapienza ho potuto approfondire tanti periodi, meditarli e trasmetterli. In questo caso, la mostra Mirò a Torino presenta un centinaio di opere ed è un assemblaggio importante di iconografie anche molto diverse. La sua volubilità iconografica mi affascina. Mirò è stato un surrealista, ma con delicatezza, leggerezza e volatilità, facendo volutamente perdere peso ali oggetti. La sua figurazione accenna, ammicca, propone il silenzio, senza esiti drammatici. Lui attraverso l’arte ha sublimato un pessimismo di fondo, una malinconia, che l’ha accompagnato da quando era ragazzo».Lei è celebre per il movimento artistico della Transavanguardia, intravede oggi qualcosa di simile?«No, è stato l’ultimo movimento possibile. Oggi gli artisti sono tutti individui solitari, senza raggruppamenti perché non ci sono più ideologie. Al massimo ci sono dei collegamenti tra colleghi».Quali sono le città dell’arte contemporanea?«Con le avanguardie storiche era Parigi, con le neoavanguardie New York, poi c’è stata una distribuzione per cui tutto può succedere ovunque perché non c’è una scuola. Il sistema dell’arte è globalizzato e abita qualsiasi angolo del mondo, primo, secondo, terzo, senza privilegi particolari di partenza».Il Castello di Rivoli, che le ha dedicato una mostra, che ruolo può avere in questo circuito?«Si tratta di un museo storicamente importante, lo è stato e continuerà ad esserlo grazie alla sua apertura progettuale. È un punto di riferimento internazionale anche al di là della geografia. Il segreto è in buoni direttori come Carolyn Christov-Bakargiev e il suo successore Francesco Manacorda, una persona aperta, preparata e rilassata, caratteristica che apprezzo molto».Cosa si aspetta dalla prossima Biennale di Venezia?«È una manifestazione a cui voglio bene, l’ho anche diretta nel 1993, e ogni volta ci trovo qualche sorpresa, qualcosa di buono, dunque mi aspetto di vederla anche stavolta».Lei come la farebbe oggi?«A colori, cioè senza preconcetti».Chi sono i suoi artisti preferiti?«Molti appartengono all’area della Transavanguardia. Sandro Chia, Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicola De Maria, Mimmo Paladino. E poi mi piace Julian Schnabel. Sottolineo che la Transavanguardia non è stato un movimento patriottico, ma uno sconfinamento, un’apertura».Ci sono grandi artisti che non considera tali?«Se non li considero non ci penso neanche».Damien Hirst?«Per la sua originalità è certamente un artista».Il suo rivale Vittorio Sgarbi è sempre sottosegretario alla Cultura, che ne pensa?«Non è un mio rivale, ma non è un gran successo fare il sottosegretario alla Cultura di questo governo. Sgarbi non è un critico d’arte contemporanea, ha studiato bene quella antica e si è fermato lì. Gli manca l’agilità mentale per comprendere il contemporaneo».Eppure come lei non ha timore di nessuno, questo vi accomuna?«Un pochino sì, avere qualche affinità non è grave».Come si sente ad essere il grande vecchio superstite del mondo dell’arte dopo la scomparsa di Germano Celant?«Eravamo una coppia fissa, sempre a confronto con rispetto reciproco. Lui era un critico tradizionale, all’interno di un sistema, ma col mito del rinnovamento. Io con la Transavanguardia ho evitato questa coazione del nuovo recuperando la storia come attualità».Poserebbe ancora nudo come fece per Frigidaire?«Io mi spoglio spesso, perché ho il senso del gioco. Come dico sovente, ormai sono partenopeo e parte romano».Cos’è la provocazione oggi?«C’è un’indifferenza diffusa per cui la provocazione di per sé non ha più quel lato etico che poteva avere un tempo. Oggi c’è l’assoluzione per tutto e invece bisogna sempre prendere posizione».L’Italia contemporanea le piace?«Certo che sì, è un Paese rilassato, ospitale e multiculturale. Le città hanno avuto una grande funzione di formazione per gli artisti, per esempio Torino per l’Arte povera, Napoli e Roma per la Transavanguardia. Senza la loro accoglienza non ci sarebbe stata possibilità per l’arte». —