Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  dicembre 12 Martedì calendario

Le foto di Staglietti

Strano: alcune fotografie, come alcuni libri, acquistano un peso via via maggiore nella vita. Non possono sostituire tutto, certo, ma giungono laddove nulla arriva. Spesso, all’inizio, non si presta attenzione, le immagini sembrano troppo pallide rispetto a quello che è tragicamente accaduto, guerre, rivoluzioni, massacri, carestie, sfruttamento. Ma poi, lentamente, diventano un muro, sì, un muro: forse non ti proteggono rispetto all’angoscia del tempo che si vive, ma almeno ti puoi appoggiare. Forse non servono a molto, ma in tempi come questi che precipitano verso le tenebre, salvano da una disperazione estrema. E tanto basta.Mi è accaduto con le immagini scattate da Ivo Saglietti. La fotografia come fatto estetico, la foto “artistica’”, non mi entusiasma. Lo so, è una eresia. Ma è la fotografia di “reportage”, di cui Saglietti è stato un maestro, che è fondamentale per capire e trasmettere la Storia. Quella sì, è un fatto politico e ci riguarda tutti, carnefici, vittime e soprattutto noi spettatori. C’è chi insorgerà: ma è una idea strumentale della fotografia! No! Semmai è la necessità rivoluzionaria della fotografia. Come del (buon) giornalismo.La maggior parte delle immagini che compaiono su giornali, riviste, nuovi media sono mediocri, spesso irrilevanti. E non per l’inquadratura banale, la luce, i chiaroscuri o la disposizione scenografica dei soggetti. Perché non spiegano nulla se non che in quel luogo, in quel momento è accaduta quella cosa. Tra un giorno o un anno non sapremo che farcene di quell’immagine, non trasmetterà rabbia, commozione, non ci costringerà a riflettere. E forse agire.Nella divisione che Braudel assegnava alla Durata con cui si può comprendere la Storia, queste immagini appartengono alla categoria meno significativa, quella del “tempo individuale”. È il più breve, quello appunto degli “avvenimenti”, la cronaca delle glorie e delle sconfitte, della cadute e degli avventi, dei delitti privati e collettivi. Quello che il grande storico francese paragonava a uno spettacolo tropicale di lucciole fosforescenti che brillano per un attimo intensamente e subito muoiono, lasciando la notte incontaminata e impenetrabile nella sua oscurità. Come accade per la narrazione storica che si limita a enumerare uno dopo l’altro i fatti.Una galleria di fotografie di Saglietti da oggi al 28 gennaio si può ammirare in una mostra densa e commossa curata da Tiziana Bonomo e organizzata da “La porta di vetro”. Si intitola Lo sguardo nomade e si apre al Museo del Risorgimento di Torino pochi giorni dopo la sua scomparsa. Ebbene le fotografie sono da collocare nel “tempo sociale” braudeliano, quello dei ritmi lunghi della Storia. Ancor meglio: in quello che lui definiva il “tempo geografico”, il tempo della lunghissima durata, che lega inestricabilmente l’uomo al mondo che lo circonda, quello delle grandi trasformazioni che sono sì sostegni e ostacoli, ingombrano la Storia, ma ne cambiano il corso. Ove si sviluppano le migrazioni, le guerre senza fine perché oppongono ragione a ragione, le rivolte sempre domate e sempre rinascenti per il progresso, la divina capacità dell’essere umano di sopravvivere. Ecco: nell’arco temporale della mostra che va dagli anni Ottanta del secolo scorso all’avvento di un millennio già talebanizzato di fanatismi e bugie, sono scandite le boe del suo tempo fotografico lungo, scatti da immagazzinare nella memoria e da estrarre per riassumere in un lampo cosa è accaduto. Dal Cile di Pinochet ad Haiti dei dannati della terra, dal cadavere insanguinato della ex Jugoslavia alla Palestina: a Saglietti non era lecito star fermo in nessun luogo, non poteva metter radici, la sua è stata l’esistenza del fuoruscito, del monaco mendicante indiano. L’esistenza dell’uomo moderno. Per sopportare questa dannazione del testimone, che scriva o scatti fotografie, bisogna credere nelle cose grandi, la verità, la ragione, l’amore tra gli uomini, la pietà. Saglietti era uno di quegli uomini che soffrono anche per gli altri, quasi per osmosi, e questo dolore diventa tutt’uno con il loro lavoro.Suggerirei, per capire questa magia della permanenza, di guardare gli scatti al funerale di Arafat. E quelli al monastero di Mar Musa con padre Dall’Oglio di cui era amico fraterno. Nella convulsione dell’addio al padre-padrone dei palestinesi c’è tutto il prima e il dopo: reclusione, esilio dietro muraglie cinesi, sbarramento, negazione, labirinto, rabbia, ripiegare. E nel miracolo della comunità siriana, fissato prima delle fatwe necrofaghe della guerra civile, padre Dall’Oglio vive.Dell’ultimo incontro con lui, una conversazione “tra immagine e parola” sulla rivoluzione (la rivoluzione!) mi resta il più bel sentimento che ci sia dato conoscere, quello che porta in pari grado e senza conflitto l’affetto e l’ammirazione, e in cui l’ammirazione diviene l’aspetto più nobile di una segreta tenerezza.Dalle sue fotografie ho imparato che in questo tempo l’innocenza è un delitto che viene severamente punito e che nei mille luoghi in cui il mestiere ci porta grava su tutto la spettrale atmosfera del diminuito rispetto della vita dell’individuo. Sfruttamento, indifferenza e guerre lo portano con sé come portano la peste. Sono i selfie degli uomini che non sono più uomini ma sono classificati con i criteri del profitto: utili, inutili, amici, nemici. —