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 2023  dicembre 12 Martedì calendario

Intervista a Byung-Chul Han


Con scrittura diamantina e mente nitida, il filosofo tedesco di origini sud-coreane Byung-Chul Han torna a riflettere sul contemporaneo, pescando nel passato, nel saggio Vita contemplativa (nottetempo) un chiaro richiamo ad un confronto con la Vita activa di Hannah Arendt. Senza l’inazione siamo solo macchine. Perché l’inazione è il fine ultimo dell’umanità, sostiene Han con quella scrittura che ricorda la pittura di Cézanne nel riuscire a fondere i concetti e trasformare le idee. In quest’inno all’otium, più che al dolce far niente, come formula basilare della felicità, si cela il segreto dell’arte e della poesia.

Dall’antica Grecia a Walter Benjamin e Robert Musil fino a oggi, filosofi e scrittori ripetono quanto sia importante l’inazione. Quali sono i rischi di aver dimenticato quest’importante lezione?
“L’ossessione per l’attività e l’impulso all’accelerazione sono tratti distintivi della modernità. Già Nietzsche parla dei ‘lavoratori’ che ‘rotolano, come la pietra rotola, seguendo la stupidità della meccanica’. Lui constata che l’ossessione per l’attività trasforma la civiltà umana in una ‘nuova barbarie’. Tra le correzioni necessarie da apportare al carattere umano, c’è la necessità di ‘rafforzare in larga misura l’elemento contemplativo’. Nel regime neoliberale odierno si aggiunge all’ossessione per l’attività anche l’ossessione per la prestazione o la costrizione alla prestazione. Ci sfruttiamo fino alla morte credendo di realizzarci. Ci ottimizziamo fino alla morte. Siamo tutti quell’animale kafkiano che strappa la frusta al padrone e si frusta da solo per diventare padrone. Abbiamo anche paura di fallire o di non essere all’altezza delle nostre pretese. Questa costrizione alla prestazione porta alla depressione e al burnout”.
Lei spiega che “essere collegati non è la stessa cosa che essere legati, anzi è proprio questa connessione senza limiti a indebolire il legame.” In che modo il capitalismo trasforma il tempo e ci induce a credere, oggi, che l’idea di comunità, nel senso social di community, sia coesiva quanto la collettività?
“Il regime neoliberale rende le persone individualiste, trasformandole in imprenditori di sé stessi. La competizione totale distrugge la comunità; ognuno pensa solo a sé stesso. Le energie libidiche vengono indirizzate esclusivamente all’ego. La libido diventata narcisistica non si rivolge più all’Altro. Questa limitazione nella fluidità della libido, cioè la congestione della libido nell’ego, ci rende malati. Perdiamo ogni capacità di contatto, di vicinanza, di risonanza. Diventiamo senza mondo, cioè depressi. I social media paradossalmente eliminano il sociale e isolano le persone. Siamo più soli che mai. Perdiamo l’empatia. La comunità si erode”.
“Abbiamo perso per strada la consapevolezza del fatto che il massimo livello di felicità è dovuto al guardare. Sia nell’antichità, sia nel Medioevo, la felicità diveniva ricercata nello sguardo contemplativo.” Siamo come dei ciechi obnubilati dalle troppe immagini, di cui non capiamo più il senso. Oltre alla presa di coscienza di un istupidimento collettivo, cos’altro c’è da imparare da questo fenomeno?
"L’attenzione oggi è completamente frammentata e distrutta. Le informazioni, assunte come stimoli, demoliscono l’attenzione. Se l’attenzione fosse la preghiera dell’anima, oggi non avremmo più un’anima. Viviamo come cacciatori di informazioni in una società priva di anima. È evidente che l’uomo diventa schiavo delle proprie creazioni. Crediamo di avere sempre più libertà, ma in realtà ci troviamo in una morsa che si stringe sempre di più”.

Interpretando Marx scrive: “Gli individui che s’illudono di essere liberi sono in realtà genitali del capitale, utili solo a riprodurlo. L’eccesso di libertà e prestazione neoliberista non è altro che l’eccesso del capitale”. Che conseguenza ha questo meccanismo sulla qualità della vita?
"Penso che abbiamo fallito con il progetto della libertà individuale. L’eccesso di libertà si rivela come eccesso di capitale. Libertà e amicizia hanno una radice comune nel mondo germanico. In origine, libertà significava essere tra amici. Dovremmo riconquistare questa libertà originaria. L’amicizia è una relazione senza scopo. È una sorta di inattività. Per questo ci rende felici”.

Analizzando le idee di Musil lei ricostruisce l’invito dell’autore a silenziare ogni attività in sé, di modo che la suprema abnegazione tolga ogni barriera tra noi e il mondo. Quanto è difficile per l’homo digitalis concepire quest’idea che risuona della saggezza della filosofia vedica?
"In un passo di L’uomo senza qualità Musil descrive un regno di inattività che sarebbe un eterno Shabbat. Uno ‘spirito magico dell’inattività’ porta il mondo in uno stato di contemplazione, in cui interno ed esterno, io e mondo si toccano reciprocamente. Il ‘misticismo illuminato’ di Musil abolisce quelle separazioni che isolano le cose l’una dall’altra. Le cose si fondono tra loro come in uno ‘stato di sogno’. La paesaggistica dell’inattività è quindi senza limiti separativi. Le cose si uniscono e si riconciliano. Diventano permeabili l’una per l’altra e si penetrano reciprocamente. I dettagli perdono il loro egoismo e diventano fraterni in una connessione intima. Non critico il mezzo digitale in sé. Possiamo farne un uso diverso. Vilém Flusser, il primo teorico del digitale, credeva ancora che la comunicazione digitale fosse una sorta di comunione, che creasse una sorta di comunità di Pentecoste. Libera l’uomo dall’isolamento di sé e fa emergere uno spirito che unisce e riconcilia tutti gli esseri umani. È una strategia per eliminare l’ideologia dell’io a favore della consapevolezza che siamo qui l’uno per l’altro e nessuno è isolato per sé”.
Lei opera una disamina talmente precisa di “Vita activa, la condizione umana” di Hannah Arendt che sarebbe riduttivo chiederle di condensarla qui. Però può spiegare qual è l’errore principale di Arendt, secondo lei?
“Il progetto di Arendt sulla “vita attiva” trascura una dimensione essenziale dell’esistenza umana, ovvero il contemplativo. L’assolutizzazione dell’agire da parte di Arendt priva la vita di ogni festività. La festa è l’espressione di una vita abbondante, una forma intensiva di vita. Nella festa, la vita si riferisce a sé stessa, anziché perseguire scopi al di fuori di sé. Mette fuori gioco il lavoro e l’agire. Così, durante lo Shabbat, sono proibite tutte le attività orientate a uno scopo. La vita, libera dal proposito, che vibra in sé stessa, costituisce la quiete festiva. Non è la determinazione ad agire, ma l’abbandono della festa che ci eleva al di sopra della semplice vita, che sarebbe solo sopravvivenza. La vita, ridotta all’essere attivi, all’agire, è letale. Fino alla fine, ad Arendt è sfuggita la consapevolezza che proprio la perdita della capacità contemplativa porta alla vittoria, da lei stessa criticata dell’animal laborans, che sottomette tutte le attività umane al lavoro. Contrariamente alla convinzione di Arendt, il futuro dell’umanità non dipende dal potere degli individui agenti, ma dalla rinascita della capacità contemplativa. La vita attiva degenera in iperattività e finisce nel burnout, non solo della psiche, ma anche dell’intero pianeta, a meno che non accolga in sé la vita contemplativa”.

Lei esplora anche il rapporto tra l’etica dell’inazione e la salvezza della Terra. L’idea di protezione dell’ambiente è sbagliata, lei dice. La Terra non è una “risorsa” da trattare il più possibile “coi guanti.” Dobbiamo “avere cura,” come peraltro ci invita a fare Papa Francesco. “La salvezza della Terra dipende dalla nostra capacità di ascoltarla,” lei scrive. Ma non è troppo tardi?
"Penso che la Terra sia paziente. Dovremmo finalmente capire che la Terra non è una risorsa da preservare. Noi nuociamo alla natura nel momento in cui la consideriamo un mezzo per scopi umani. Dovremmo rivedere il nostro rapporto strumentale con la natura, che inevitabilmente porta a catastrofi. Nell’introduzione a Hyperion, Hölderlin scrive: ‘Porre fine a quell’eterna contraddizione tra noi stessi e il mondo, raggiungere la pace di tutte le pace, che è più alta di ogni ragione, riportare l’armonia con la natura, unirci a un tutto infinito, questo è l’obiettivo di tutto il nostro sforzo’.

Lei lamenta la scomparsa del simbolo che sgretola anche il sentimento comune e quindi l’evaporazione della comunità, frammentata ed erosa. Esiste la possibilità di ricomporre ciò si è spezzato o è una fase umana terminata per sempre, una spaccatura irreversibile?
"Il simbolico influisce sul nostro comportamento e pensiero a livello preriflessivo. I simboli generano concetti condivisi che rendono possibile il “noi”, la coesione di una società. Solo attraverso il simbolico si forma la co-sensazione, la “sim-patia” o la “com-passione.” Nella vuotezza simbolica, al contrario, la comunità si frantuma in individui indifferenti, poiché non esiste più ciò che unisce e rende vincolante. La perdita della co-sensazione attraverso il simbolico accentua la mancanza di essere. La comunità è un tutto mediato simbolicamente. Pertanto, il vuoto simbolico-narrativo porta alla frammentazione e all’erosione della società. Oggi, le informazioni stanno sostituendo i simboli. Le informazioni distruggono ciò che è comune. Dobbiamo lavorare per sviluppare forze contrarie alle informazioni. In questo contesto, dovremmo riflettere nuovamente sul simbolico”.

Lei dichiara che il nuovo è il male, solo l’antico è il bene. Solo i “contadini dello spirito” di Nietzsche che sanno riscoprire la necessità della vita contemplativa possono cogliere la realtà. Gli ossessionati dall’azione vivono in un mondo confuso il cui senso si sfila di fronte ai loro occhi sempre più miopi. Cosa può portare a un sovvertimento di quest’ordine di cose?
"Naturalmente, non ho affermato che solo l’antico sia il bene. Nietzsche parla in un aforisma di ‘coltivatori dello spirito’. Tra questi includono i grandi moralisti come Pascal, Epitteto, Seneca o Plutarco. Secondo Nietzsche, il fatto che il nostro tempo sia carente di tali coltivatori dello spirito è dovuto alla perdita della vita contemplativa. La crisi della modernità, secondo Nietzsche, è causata dal fatto che siamo completamente abbandonati da quel genio della contemplazione. Arendt, al contrario, fa del nuovo il bene per eccellenza che salva l’umanità dalla rovina. Volevo con Nietzsche sottolineare che l’obbligo di innovare può essere distruttivo”.

Lei sembra indicare nelle idee del Romanticismo, nelle poesie di Novalis, una possibilità di salvezza, o perlomeno una reazione insita nella cultura occidentale stessa al mondo dell’azione, una strada per tornare a capire il rapporto con la Natura, il fatto che ne facciamo parte in maniera inscindibile. Auspica quindi un neoromanticismo che riporti una narrazione in questa ottusa marea di dati? E se così fosse, come lo vedrebbe declinarsi? E cosa ne è dei rischi dell’oscurantismo dell’irrazionale?
"I primi romantici tedeschi come Hölderlin o Novalis pensavano che tutto fosse vivente e interconnesso. L’individuo vive nell’intero e l’intero nell’individuo. Novalis immagina l’idea di una “famiglia mondiale”. Si tratta di un universalismo assoluto che va oltre le nazioni. Novalis sogna un futuro regno di pace in cui l’uomo e la natura si riconciliano. L’uomo non è più che un concittadino in una repubblica degli esseri viventi, alla quale appartengono anche piante, animali, pietre, nuvole e stelle. I romantici hanno anche ripensato alla libertà. La libertà significa appartenenza, un “volere insieme”, come dice Novalis. La libertà è, per Hölderlin, gentilezza. Perciò eleva la gentilezza, che annulla ogni separazione e isolamento, a un principio divino: “Finché la gentilezza ancora / Nel cuore, pura, persiste, / Non si consideri infelice l’uomo / Con la divinità.” Il Romanticismo non è irrazionale. Adorno ha dimostrato in Dialettica dell’Illuminismo che l’Illuminismo, contro cui il Romanticismo si ribella, degenera in barbarie. Dobbiamo inventare una forma di vita diversa che presupponga una comprensione completamente diversa della vita e un nuovo rapporto con la natura. In questo contesto, il ritorno al Romanticismo può essere molto utile”.
Il libro – Vita contemplativa o dell’inazione di Byung-Chul Han (nottetempo, traduzione Simone Aglan-Buttazzi, pagg. 156, euro 15)