La Stampa, 12 dicembre 2023
Breve storia del Monte Paschi
La dice lunga sull’Italia che le alchimie finanziarie dilagate in tutto il mondo, nel primo decennio del secolo (con follie di grandezza successivamente addossate ai contribuenti), fossero state adoperate in massimo grado, da noi, per sorreggere un gruppo di potere che provinciale era e provinciale voleva restare, in una città di appena cinquantamila abitanti. E ora sarebbe stato bizzarro, e alquanto perverso, ieri al Tribunale di Milano, non assolvere i due manager, Profumo e Viola, che, al peggio, potevano essere sospettati di aver portato in luce troppo tardi le porcherie finanziarie dei loro predecessori. Tanto più che questi predecessori, a loro volta, appena due mesi fa sono stati prosciolti in Cassazione. Chi è stato, allora, a portare il Monte dei Paschi alla rovina? Di ingredienti per un romanzone giallo ce ne sarebbero parecchi, compreso un morto, vero, il responsabile della comunicazione del Monte David Rossi, e le dicerie su orge con potenti locali; dicerie rilanciate da un ex sindaco di Siena che continua a ritenere assassinio quella caduta dalla finestra che le indagini accreditano come suicidio.
Nelle chiacchiere senesi tutto si può dire, incluso che Profumo e Viola fossero stati colpiti da una vendetta dei poteri estromessi, pur se pare difficile riportare ad intrighi locali i magistrati di Milano, fra l’altro ben abituati ad occuparsi di reati economici. Restando ai fatti, c’è l’enormità del disastro di una antichissima banca che si giocò in pochi anni il patrimonio accumulato in cinque secoli.
Negli anni dell’euforia, quella che era la terza o quarta azienda di credito italiana si tentò di attirarla nei campi aperti della grande finanza mondiale; la Fondazione che lo controllava avrebbe potuto diventare azionista di maggioranza relativa della multinazionale spagnola Bbva, presente in 30 Paesi; oppure a Siena sarebbero stati concentrati gli investment bankers di un altro colosso.
Ma niente, per chi comandava nel Mps era meglio essere primi in Piazza del Campo, e casomai grandi in Italia, che uno dei tanti alla City di Londra o a Francoforte. Così non volle evolversi quello strano connubio di banca e di «istituto di beneficenza municipale» (definizione di persona ben informata sui fatti come Ignazio Angeloni, ex dirigente della vigilanza Bce).
Già prima della grande crisi finanziaria del 2008 le spericolatezze si erano fatte più frequenti, come del resto in altre banche che poi sono finite male, come Popolare di Vicenza o Popolare di Bari; con conti già traballanti si giocava d’azzardo, magari sperando che le dimensioni accresciute avrebbero facilitato interventi di sostegno o soccorso. Perdurava la pratica che è stata chiamata del «prestito di scambio», ossia di denaro erogato per una contropartita di potere senza troppo preoccuparsi se chi lo riceve è in grado di ripagarlo. In polemica contro i due colossi che crescevano, Intesa Sanpaolo e Unicredit, accusati di calcoli troppo freddi sulla redditività, si esaltava la «banca del territorio» supposta più vicina alle esigenze delle imprese.
Invece no, le scelte compiute in nome del «territorio» avevano poco a che fare con il mercato e molto con il potere. Gli assetti proprietari esaltati come forme di democratizzazione dell’economia, banche popolari o cooperative, formavano gruppi dirigenti inamovibili e non controllati. Una banca pubblica grande in mano ai governanti di una città piccola suscitava tentazioni.
Nel gioco di «Risiko» che in quegli anni investì il settore creditizio, la testarda volontà dell’allora governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio di escludere partecipanti non italiani aprì lo spazio a dubbi speculatori immobiliari e abbatté le preclusioni che fino allora avevano frenato la banca «rossa» (perché controllata dagli enti locali senesi allora tutti a maggioranza di sinistra).
Fallita l’operazione con Bnl, quella dell’«abbiamo una banca» dell’allora segretario Pd Piero Fassino, il Monte ripiegò sull’acquisto della grande ma malferma Antonveneta, pagata a prezzo carissimo (tre volte il valore di libro) senza aver capito che cosa c’era dentro. Dopodiché, per nascondere le crescenti perdite si ricorse alle astuzie sulle quali si sono espressi i giudici milanesi.
Gli effetti di quell’errore si sono trascinati lungo tutto il decennio successivo. Dietro i trucchi dei derivati «Alexandria» e «Santorini», per i quali però ormai nessuno è stato condannato, il Mps continuava a perdere denaro per aver finanziato troppi amici degli amici. Esaurito il capitale, la Fondazione, controllata dagli enti locali toscani, solo nel 2014 alzò bandiera bianca.
Mentre negli altri Paesi con grande spesa si erano già operati numerosi e controversi salvataggi, in Italia l’assenza di crisi immobiliare e la scarsa apertura estera delle nostre banche consentirono di nascondere la polvere sotto il tappeto per qualche tempo. Le crisi esplosero dopo che la vigilanza a fine 2014 passò alla Bce, ma il coraggio di misure drastiche sul Mps forse anche a Francoforte mancò.
Diluito nel tempo, il dissesto del Monte ha fatto meno scalpore di quelli di Etruria e Vicenza. E, paradossalmente, proprio errori di gestione così pervasivi e diffusi, con ampie complicità di tutte le forze politiche locali, nonché omertà di tutti i centri di potere, hanno per ora evitato che la magistratura riuscisse a individuare colpevoli di reati precisi.