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 2023  dicembre 12 Martedì calendario

Le confessioni di Edith Bruck


Sopravvissuta alla Shoah e narratrice instancabile del trauma vissuto ad Auschwitz e in altri lager nazisti, Edith Bruck si domandava retoricamente cinque anni fa nella sua postfazione a Versi vissuti: “Di che cosa scrive un poeta se non dell’assenza, di ciò che manca sia dentro che fuori?”. Interrogativo già maturato in Specchi, poemetto pubblicato nel 2005 e che Edizioni di Storia e Letteratura ripropone integrato da una intervista inedita all’autrice realizzata nel giugno scorso da Michela Monferrini.
Una vocazione lirica, quella dell’autrice 92enne (all’anagrafe Edith Steinschreiber), propiziata dal marito Nelo Risi (fratello del cineasta Dino), poeta e regista scomparso nel 2015 dopo avere lottato contro l’Alzheimer. Crudele paradosso della sorte per lei, custode della memoria, assistere il compagno di una vita smarrito nell’oblio.
Bruck, ebrea di origini ungheresi (naturalizzata italiana), con una discreta bibliografia alle spalle, è tornata alla ribalta anni fa grazie al fortunato Il pane perduto, vincitore dello Strega giovani nel 2021. A seguire una visita inattesa e clamorosa di Papa Francesco nella sua casa romana in via Margutta e il premio Campiello alla carriera ritirato a Venezia lo scorso settembre. “L’ultima parte della mia vita è sul tappeto rosso” confessa a Monferrini. Con lo sguardo rivolto verso l’olmo che incombe sulla finestra del suo salotto ha l’azzardo di aggiungere: “La mia patria è tra piazza di Spagna e piazza del Popolo”.
Nel suo “italiano adottato” la poetessa formalizza che gli oggetti che la circondando “mettono insieme/ pezzi d’esistenza”. E in effetti ci sono libri e fotografie, targhe accumulate una sull’altra, fogli sparsi. Specchi è un inventario di effetti personali che riflette la disumanità del lager e il calore di un interno borghese, gli stenti dell’infanzia e la prosperità caciarona della Capitale.
A vegliare sull’autrice i ritratti degli affetti familiari e degli amici perduti. In cima alla libreria una Menorah antica (il candelabro ebraico a sette braccia, ndr) condivide lo spazio con bottiglie orientali che, dai “Paesi da mille e una notte”, evocano certi fedeli di Allah che seminano morte, “magari in un ristorante/ a Gerusalemme ovest”. Tra la Cabala, Kafka, Emily Dickinson, ecco le opere poetiche di Majakovskij acquistate negli anni 50 “da straniera/ in un’Italia in bianco e nero”. Tra i portacandele di Delft e i gattini di ceramica, legno e vetro, i dischi classici di Beethoven, Mahler, Schubert, non più ascoltati perché “toccano in me qualcosa/ di estremamente fragile/ che non regge la sorgente/ della loro ispirazione”.
All’ombra dell’immagine che ritrae un albero d’ulivo piantato in suo onore sulla collina di Gerusalemme, si dipana la parabola di una donna che ha visto tutti gli orrori del Novecento nell’amara consapevolezza che “la morte è svalutata”. Una donna grata perché ha avuto la vita “restituita” dopo che il suo cuore le ha giocato un tiro mancino ma che ha sentito rinnovarsi l’offesa della Storia quando in vista di un intervento un’infermiera l’ha rasata “come ad Auschwitz/ umiliata a dismisura/ come allora/ come fosse accaduto ieri/ ancora una volta”.
In mezzo a “lettere d’amore che non si scrivono più/ lettere di lettori di amici/ che non sono più” la scrittrice cede alla disillusione: “I miei libri/ il mio vissuto/ non diranno più niente a nessuno”. Resistere al “tempo che ha sempre meno tempo” è un esorcismo che invece è riuscita a compiere come pochi altri testimoni. Giovanni Raboni – di fronte al miracolo di una memoria che preserva insieme passato e presente – ebbe a scrivere non a caso che nell’opera di Edith Bruck “ciò che accade è sempre già accaduto, ciò che è accaduto non finirà mai di accadere”.