la Repubblica, 11 dicembre 2023
L’astronomia visionaria di Auguste Blanqui
Fu Nietzsche a imporre il concetto di “Eterno ritorno dell’uguale”. Toccò ad Auguste Blanqui, cospiratore e rivoluzionario di professione, aprirgli la strada. Quando ne scrive è un uomo ormai anziano che ossessivamente riempie foglietti con calligrafia minuta nella cella di Fort du Taureau dove è stato recluso per impedirgli qualunque contatto con i rivoltosi della Comune di Parigi.
Il vecchio Auguste ha trascorso più tempo in galera che sulle barricate. La prima sensazione dopo aver letto L’eternità viene dagli astri (edito da Adelphi, traduzione di Raffaele Fragola, con uno scritto di Ottavio Fatica) è di sconcerto: «Ciò che sto scrivendo in questo momento in una cella di Fort du Taureau», annota Blanqui, «l’ho scritto e lo scriverò per l’eternità».
Teorizza l’impossibile: l’esistenza di miliardi di mondi e uomini-sosia che si moltiplicano con instancabile precisione monotona. Quest’uomo, popolare e inviso, senza alcuna apparente ragione, trasforma un’utopia socialista (su cui Marx ebbe molte riserve) in un fanta-incubo che sarebbe piaciuto a quel costruttore di mondi paralleli e controfattuali che è stato Philip Dick.
Ma più che aprirsi a un genere letterario, Blanqui riflette sulle illusioni prodotte dal secolo decimonono, a cominciare dall’idea di progresso. Nel descriverlo, come fisicamente ripugnante, Tocqueville mette in fila la lunga serie di fallimenti nei quali è incorso. L’Europa assolutista lo vorrebbe morto o all’ergastolo.
Lui “evade” o “risorge” senza più proclami di rivincita ma con un trattatello di astronomia dove discute le ipotesi cosmologiche di Laplace. Per farlo assume l’idea che la materia di cui è composto l’universo è eterna. In questo movimentato scenario di atomi recitano le stelle, i pianeti, le comete. Sono “mondi” che nascono, invecchiano, muoiono e poi risorgono, in forza dell’unica legge in grado di ripopolare l’universo: la gravità. Ma se tutto è eterno e al tempo stesso perituro, che ne è dell’uomo, delle sue azioni e pensieri? Come dare senso a qualcosa che non richiede alcuna giustificazione: perché è e sempre sarà? L’infinito al quale l’universo si commisura è per Blanqui la dimostrazione della nostra impotenza conoscitiva. Solo l’eterno ritorno può interpretare il movimento che lo regola.
Cogliendo, nella ciclica ripetizione dei suoi astri (mondi e uomini compresi) il destino di essere o avere dei sosia. Sosia di chi o cosa? Ogni replica dovrebbe corrispondere a un originale. Blanqui non lo contempla. Intuisce che la nostra unicità risiede nella copia. Del resto, se l’universo non ha un inizio neppure l’uomo ha un origine. Non c’è un Dio per Blanqui che abbia messo mano alla costruzione del mondo. Si comprende perché pensatori e letterati bizzarri come Benjamin e Borges abbiano intravisto in quel libello circolare una messa in discussione tanto della storia quanto della realtà ottimisticamente intese. Benjamin lesse L’eternità viene dagli astri come «il più terribile atto di accusa contro una società che lancia nel cielo come una sua proiezione questa immagine del cosmo». Con il suo impianto accusatorio Blanqui anticipa il respiro novecentesco dell’articolo di massa: la constatazione che la riproducibilità della merce fosse il vero archetipo di tutto quanto la modernità stava producendo e imponendo con le sue esposizioni universali.
Davanti alla malinconica eternità dell’uomo Blanqui reagì con un doloroso salto psichico: un geometrico delirio che trent’anni dopo avrebbe in parte ripercorso Schreber con le Memorie di un malato di nervi.
Avendo fortemente creduto alla rivoluzione, Blanqui ora era costretto a constatare che nulla di nuovo vi era sotto i soli. In quelle condizioni non avrebbe avuto più senso scrivere un pamphlet politico. Meglio affidarsi a certi fantasmi del passato: l’Ecclesiaste, Democrito, Epicuro e soprattutto Lucrezio. Per il quale l’enigma della vita risiede nell’impietosa esposizione alla catastrofe, la stessa che in Blanqui prese le vesti del terremoto mentale.
Leggiamo nel suo inflessibile materialismo la sublime chiarezza con cui l’oscurità a volte traveste se stessa. Il tono sapienziale illumina di effetti espressionisti le quattro mura della cella bretone.
Il linguaggio de L’Eternità viene dagli astri sembra giungerci da un illuminismo ormai estenuato. Convinto che non ci sia costruzione del futuro, perché ogni futuro già da sempre è stato vissuto, a Blanqui non resta che dialogare con l’immane teatro dell’assurdo, (patafisico lo definisce giustamente Fatica), dove le stelle somigliano agli sfruttati della storia e i pianeti ne sono per così dire i beneficiari. Il passato non offre più alcun insegnamento. I nostri mondi-sosia hanno visto «le più brillanti civiltà scomparire senza lasciare una sola traccia, ed esse scompariranno ancora senza lasciare nulla più. Il futuro rivedrà su miliardi di terre le ignoranze, le sciocchezze, le crudeltà delle nostre ere passate». Un pensiero per i nostri tempi bui.