Corriere della Sera, 11 dicembre 2023
Intervista a Franco Arminio
Appena cominciamo a parlare, Franco Arminio sente che sta avendo un infarto. Un modo come un altro per iniziare un’intervista. Lo penso parafrasando un suo verso: «Sono morto alle 7 del mattino, un modo come un altro per iniziare la giornata». Capita di rado d’intervistare un poeta vivente, forse mai d’intervistarne uno morente. Per un bel pezzo, lui sarà indeciso se trattasi di reflusso o d’infarto e io sarò in bilico fra chiamare l’ambulanza o scrivere direttamente il necrologio. Poi, lui si calma. Mi fa: «Stia tranquilla, questa fitta al petto non è reflusso, non è infarto: è mia madre».
In che senso è sua madre?
«Da mamma, ho preso l’ansia. Mi ha sempre cresciuto come se fossi malato. A tre mesi fui ricoverato per difterite e lei sosteneva di aver visto, nella mia stanza, bambini morire ogni giorno per la mia stessa malattia. Diceva che, per la paura, era diventata cardiopatica. Sono cresciuto accompagnandola per medici e ospedali, con lei che mi ricordava che si era ammalata per colpa mia. Per anni, ho temuto la sua morte, poi sono passato a temere la mia. Ogni scrittore ha una ferita e questa è la mia».
In sintesi, soffre di attacchi di panico?
«Mentre sto facendo qualcosa, sento un dolore e una parte di me pensa che non è niente e un’altra dice: ora, muoio. Vivo e scrivo sul crinale fra spavento e battaglia. Sulla mia paura di morire, ho scritto Cartoline dai morti. Per me, anche solo fare un respiro senza l’assillo della morte è straordinario; avere un momento della giornata senza ansia è un fatto clamoroso».
Primo attacco?
«A 26 anni, dal barbiere. Mi girò la testa e, avendo letto di uno morto di encefalite, mi convinsi che stavo morendo. C’erano i Mondiali del Messico, mi dissi: mi perdo pure i Mondiali. Poi, gli attacchi sono tornati in tutte le situazioni e la paura ti inganna, un giorno parte da una puntura, un altro da un dolore al braccio. Andavo al pronto soccorso o prendevo le gocce. Oggi ho imparato a gestire questi momenti. Li ho trasformati in strumenti di conoscenza anziché, come mamma, in strumenti per arricchire i medici. L’ansia amplifica le sensazioni, è il mio binocolo per guardare il mondo».
Scrive versi dopo gli attacchi di panico?
«Ho calcolato che, nel 90 per cento dei casi, le mie pagine migliori sono legate a risvegli precoci quando ho mangiato pesante».
Mi prende in giro?
«La scrittura è sempre un tentativo di riparare la ferita e io scrivo per pagare gli errori che ho fatto. Da ragazzo, non sapevo salire sugli alberi e scrivevo versi per compensare la mia inadeguatezza. Oggi, scrivo per punirmi di un’infermità immaginaria quando ho gli attacchi e, siccome ho l’intestino delicato e pizza e cioccolata la sera mi fanno male ma le mangio lo stesso, quando mi sveglio alle tre di notte, scrivo una poesia».
Come si spiega il successo, le sette ristampe di Cedi la strada agli alberi, i teatri pieni?
«Ho successo perché il mondo vive nel timore e io maneggio il timore da quando ero bambino. Durante la pandemia, avevo più attenzione perché la gente era più spaventata. Una volta, ho messo il mio numero di telefono sui social e ho ricevuto trenta chiamate al giorno».
E che le chiedevano le persone?
«Mi raccontavano le loro paure. Una signora di Bergamo mi ha detto: qui non si muore, si sparisce. Un’anziana di 80 anni mi ha detto: mi mancano i baci. Molti lettori hanno con me un legame sanitario. La gente dice: se questo sta così e va tanto in giro, allora, posso farlo pure io».
E quelli che non hanno con lei un «legame sanitario», che legame hanno?
«Gastronomico. Leggono i miei versi e, in cambio, mi mandano salami, arance. Oggi sono arrivati dalla Sicilia una marmellata e dei fagioli. È un baratto molto più conveniente per me: certi fagioli buoni mica li trovi al supermercato».
Mi parli di Bisaccia, provincia di Avellino.
«È lontana da tutto, ma non l’ho mai lasciata. Ho visto il mare per la prima volta a 17 anni. Mi fece quasi schifo. Sono morti mia madre, mio padre e io sto ancora qua, in una casa che era un’osteria e ora è la mia casa. Nella mia strada, c’erano calzolaio, farmacista, sarta e ora non c’è più nessuno. Quando avevo 7 anni gli abitanti erano 8 mila, oggi sono 3.500. Io sono rimasto, è il paese che è andato via».
Lei perché è rimasto?
«Perché, a un certo punto, ho avuto un lavoro di insegnante elementare, una famiglia mia. Solo da grande ho capito la bellezza del paese, di quando tornavo da scuola e stavo nell’osteria di papà, mangiavo con chi c’era, assistevo ai parlamenti che lui apparecchiava ogni giorno».
È pensando a lui che ha scritto «Osteria del malumore»?
«Mio padre era di malumore se c’erano pochi clienti e di malumore se ce n’erano tanti. Ed era intrattenitore coi clienti, scorbutico con noi».
Come entra la poesia nella sua vita?
«In casa, non c’erano libri, ma a volte, in osteria, arrivava il Corriere della Sera e sul Corriere mi colpì la lettura del mondo di Pier Paolo Pasolini. Ho cominciato a scrivere a 15 anni per compensare la mia inadeguatezza: ero timido, ipocondriaco già allora, mettevo sempre le maniche lunghe per nascondere le braccia sottili».
A Pasolini ha dedicato una poesia: «…Forse anche per me la radice del male era nell’amore impossibile per mia madre…».
«Pasolini non riusciva a entrare nella donna, io sono sposato, ho due figli, una moglie che amo, ma fatico ad abbandonarmi, a provare gioia. È come se mia madre mi avesse detto: siamo la stessa cosa, soffro io e soffri tu, se non soffri, mi tradisci. Sto con mia moglie dal 1980, non ci siamo mai lasciati, però lei sa che fra noi c’è questo terzo incomodo».
A Sanremo, Marco Mengoni e Filippo Scotti hanno letto questi suoi versi: «A un certo punto devi capire che il dolore che hai subito non lo devi subire all’infinito. Mettiti in vacanza, la povera vita adulta non può pagare a oltranza i debiti dell’infanzia». Quel «certo punto», deduco, lei non l’ha vissuto?
«Era un invito a me stesso, ma vale per gli altri. Per me, la vacanza non è iniziata. Io sono un paralitico iscritto alla gara di salto in alto».
Quando e come decide che sarà un poeta?
«Intorno ai vent’anni, col terremoto, inizio ad avere la sensazione che, prima o poi, qualcuno mi avrebbe letto».
Roberto Saviano ha detto che nessuno è bravo come lei a raccontare terremoti.
«Dopo quello dell’Irpinia nell’80, appunto, sono andato a vedere che succedeva nei paesi terremotati e ho intensificato la scrittura e le battaglie civili. Dopo, non ho mai vissuto un periodo al riparo. Mi battevo per un certo tipo di ricostruzione che non ha vinto. A Bisaccia, come altrove, la ricostruzione ha fatto più danni del terremoto, o hanno dato la casa e tolto il paese. E poi raccontare luoghi terremotati è come raccontare il mio corpo terremotato. Io capisco i paesi terremotati perché capisco la morte».
Lei è anche paesologo, cos’è un paesologo?
«Uno che guarda i paesi e li racconta. Che si interessa della geografia, dello spazio, che osserva panchine e farfalle».
Quanti paesi ha visitato?
«Credo 4 mila. All’inizio, senza che mi avesse incaricato nessuno, in totale perdita, non è che andassi per scriverne sul giornale. Adesso i paesi mi invitano, magari mi pagano, riempio i teatri, vivo del mio mestiere. E pensi che, anni fa, per l’ansia, non riuscivo a parlare in pubblico, ora vado e mi guardano come un santone».
Che cosa ha capito dei nostri paesi?
«Che c’è un patrimonio architettonico e di sapere che stiamo sprecando e che i pochi giovani rimasti lì vivono un clima depressivo. Nei paesi il senso di morte si avverte di più: vedi i manifesti a lutto, le imposte chiuse… La città, invece, rimuove la morte, ti stordisce coi centri commerciali, piace di più. Ma l’antidoto alla pandemia da solitudine potrebbero essere i paesi, da rivitalizzare con giovani, innovazione, lavoro».
È stato scritto: «Per Arminio la poesia è anzitutto pregare». Pregare perché? E per cosa?
«Non sono religioso, ma il gesto della preghiera lo faccio ogni volta che sto male. Chiedo alla Madonna: non farmi morire. E scrivere, sì, è un po’ pregare, inginocchiarmi davanti al mistero della fragilità, riavermi dallo spavento».
Che cos’è il «Sacro minore» del titolo del suo ultimo libro?
«Sentire la vicinanza a tutto, il senso di gratitudine per tutto, dirsi: ah… c’è la panchina. Mi viene il sentimento oceanico, sento l’albero, la formica, ma sono momenti brevi, mediamente vivo nell’ansia. Però guardo l’albero come guardo le persone, non sono come Chandra Candiani che è andata a vivere nel bosco».
Ha scritto: «Prendi un angolo del tuo paese e fallo sacro. Vai a fargli visita prima di partire e quando torni». Lei lo fa?
«Io ho un tiglio sacro, davanti alla casa di mio fratello. Quando torno al paese, vado a trovare mio fratello e il tiglio».
Nella sua Bisaccia, è una star?
«Ho sempre vissuto la mancanza di ammirazione, prima dei miei genitori, poi del paese. A Bisaccia, qualcuno mi ha detto che avevo begli occhi solo a 37 anni. Anche ora, sono stato dal Papa e nessuno mi ha detto bravo. Però non è che mi hanno picchiato o bruciato la macchina, bisogna riconoscere che mi è andata bene».
La amano di più ad Aliano, in Basilicata?
«Il mio festival “La luna e i calanch” fa 15mila persone in tre giorni, dura 24 ore su 24, ne esco morto. Ma funziona anche la Casa della Paesologia a Bisaccia: a novembre abbiamo fatto 26 incontri di musica e poesia».
Ha un consiglio per alleviare l’inquietudine?
«Essere gentili. Coltivare rancori è un modo poco economico di vivere: anche l’altro deve morire, sii gentile, perdonalo».
La fitta al petto le è passata?
«Non proprio, penso che sto parlando tanto, che mi sto stancando e che peggiorerà».