la Repubblica, 11 dicembre 2023
Il metodo Putin. Una tortura
«La chiamano la “telefonata di Putin”: è quando ti attaccano gli elettrodi ai testicoli per darti la scossa». Uriy Andreev si accende una sigaretta. Sorseggia un tè. Sembra calmo, ma un inferno gli brucia le viscere da otto anni. Te ne accorgi quando ti fa vedere, furibondo, orgoglioso, il suo tatuaggio sul braccio: “Figlio del Donbass”. Uriy è stato un prigioniero fantasma per sette mesi, un desaparecido, rapito dai separatisti russi a Lugansk, sbattuto in una cella lercia e torturato senza sosta, sparito per la sua famiglia senza lasciare tracce.
Uriy inspira, è una boccata lunga. «Ogni tanto mi infilavano un sacco di plastica sulla testa fino a farmi quasi soffocare». E poi le botte, notte e giorno. La sua colpa? Essere ucraino nei territori occupati da Putin. E non rassegnarsi al nuovo padrone. Dopo sette mesi di prigionia, un agente dei Fsb lo ha riconosciuto: avevano fatto il servizio di leva insieme nell’Urss. E lo ha lasciato andare. Un miracolo. La sua storia è finita anche in un meraviglioso documentario di Vadim Moiseenko, “The son of Donbass”.
Quella di Serhiy Zakharov, un altro protagonista di questa notte delle matite spezzate dal sapore sovietico, l’ha raccontata lui stesso nei disegni con cui elabora il suo inferno da nove anni. Uryi e Serhiy sono “ostaggi” per le autorità ucraine. Dmytro Lubinets, il Commissario ucraino per i Diritti Umani, ha ufficializzato una cifra spaventosa. Sono 28mila i civili spariti nel nulla dall’inizio dell’invasione, rapiti dai russi. Una città intera. Una tragedia cominciata nel 2014, con l’occupazione del Donbass e l’annessione della Crimea. Che sta assumendo proporzioni bibliche dall’invasione del 2022. È gente prelevata per strada, che sparisce senza poter più comunicare con i propri cari e senza un processo, chemuore senza un perché. E da giugno del 2022, secondo l’ong Media Iniziative for Human Rights, gli ostaggi non finiscono neanche più sulle liste dei prigionieri da scambiare con i russi. Sono diventati ancora più invisibili.
Serhiy non riesce a smettere di disegnare i suoi aguzzini. Nel 2014, quando a Donetsk sono cominciati ad apparire i separatisti, lui si è messo su un marciapiede e li ha sbeffeggiati sui muri. Lo hanno preso, lo hanno sbattuto in carcere, una donna col passamontagna gli ha spiegato che stava insultando il loro dio, il capo della banda Igor Strilkov, e lo ha picchiato. Il giorno dopo lo ha fatto inginocchiare e gli ha puntato un mitra alla testa: «Ho sempre voluto sapere cosa si prova prima di morire», gli ha sussurrato. Lui le ha risposto «e allora leggi Dostoevskij». Lei lo ha colpito di nuovo, ma lo ha risparmiato. E gli ha regalato, ignara, lo stesso destino del grande romanziere russo. Quando lo hanno liberato, all’ospedale gli hanno detto che le botte gli avevano spezzato tutte le costole.
Anche il racconto dei tre anni di prigionia di Liudmyla Huseinova lascia senza fiato. Soprattutto perché questa donna minuta che incontriamo in un ufficio della sede dei giornalisti ucraini, ci fa sprofondare inun incubo senza mai scomporsi. Neanche quando ci racconta di quella guardia russa cui ha fatto la domanda delle domande dei desaparecidos ucraini: «Perché sono qui?». La guardia russa le ha risposto: «Parli troppo, e quindi, siccome sei troppo vecchia per essere stuprata, ti faremo lavorare di bocca».
Liudmyla è stata arrestata a Nova Azovka, in Donbass, nel 2019. Perché aiutava gli orfani ucraini e ha messo un ‘like’ a un post di Fb che denunciava l’arrivo degli “orchi” russi. I primi 50 giorni, li ha trascorsi in una cella in cui non poteva sedersi né sdraiarsi tra le sei di mattina e le dieci di sera. Di notte le luci abbaglianti restavano accese ed era vietato coprirsi gli occhi. Se “sgarravi” ti sbattevano in una cella dove potevi stare solo in piedi. La prima colazione, erano i pugni e i calci delle guardie. «A volte mi sbattevano la testa al muro». Ma l’inferno vero è stata la seconda prigione, dove ha condiviso la cella con venti detenute: assassine, ladre, spacciatrici. Non c’era neanche più un wc, solo un buco in terra per fare i bisogni, coperto da una bottiglia di plastica per non far uscire i ratti. Liudmyla in tre anni non ha mai potuto vedere suo marito. Poteva vedere l’avvocato una volta ogni due mesi. Riusciva a chiamare suo marito solo perché alcune compagne di cella nascondevano un cellulare nella vagina. Solo a ottobre del 2022 l’hanno finalmente liberata, senza mai aver formulato un capo d’accusa contro di lei. I russi non l’hanno spezzata: quando era ancora in Donbass, Liudmyla aveva portato di nascosto a casa una bandiera ucraina che le avevano regalato i soldati di Leopoli. Ha giurato che sarà la prima cosa che andrà a prendere quando l’Ucraina sarà liberata.