il Giornale, 11 dicembre 2023
Quattro giorni senza cellulare
Così è. Salgo sul treno, parto per un viaggio di quattro giorni, e quando mi siedo scopro di aver perso il cellulare. All’inizio sembro uno stupido, mi tocco la tasca mentre penso, non ci posso credere, come si dice adesso. Non può essere, ma lo è. Sono rimasto senza cellulare così come sono rimasto senza genitori e nonni: totalmente orfano comunicativo. In ogni caso, abituato a vivere fin da piccolo con la certezza che una buccia di banana sul pavimento, una saponetta nella doccia del carcere o un iceberg sulla rotta del Titanic siano sempre in agguato, cerco di prendermela con calma. Come dice il mio amico Élmer Mendoza, un saggio messicano del nord, originario di Sinaloa e connazionale della Regina del Sud, nella vita a volte perdi e altre volte smetti di vincere. Allora vediamo come andranno le cose, rifletto.
Controllo dei danni. Con mia sorpresa, prima, e con mio sollievo, poi, il danno è minimo. Questo è quello che concludo dopo averci pensato un attimo. Analfabeta tecnologicamente come sono, la parte della mia vita affidata al cellulare è piccola. Se il mio lavoro e le mie esigenze fossero diversi, sarei senza dubbio obbligato, per imperativo categorico o come si chiama, a portare in tasca – o in mano, come ormai fanno quasi tutti – uno smartphone, Android, iPhone o come diavolo chiamano i dispositivi intelligenti che, paradossalmente, limitano tantissimo l’intelligenza dell’utente. In altre parole, finiscono per farci fidare di quelle chiacchiere con l’anima, il cuore e la vita, come canta il bolero, fino agli estremi della tossicodipendenza. Non usarlo per rendere il mondo migliore, che sarebbe la cosa ragionevole e carina da fare, ma guardarlo un’ottica estremamente pericolosa esclusivamente attraverso di esso.
Ma no. E ci penso con una risata cattiva, arf, arf, come quella del cane Pulgoso. Il mio solito telefono è un Nokia di vecchia generazione che viene utilizzato solo per parlare al telefono. E che, anche quando lo porto con me, lo utilizzo il meno possibile. Quindi la cosa peggiore che può succedere, che è quello che sta succedendo adesso, è che passerò qualche giorno senza utilizzarlo, e – il culmine della felice felicità – senza che nessuno mi chiami. Sono fortunato, lo ammetto, perché difficilmente il mio lavoro e la mia vita ne risentiranno. E per quanto riguarda ciò che ci perdo, quella che in molti casi sarebbe una tragedia personale e professionale si riduce, nel mio, a piccoli fastidi. Sul cellulare non c’era nulla di essenziale. Delle uniche cose di valore, i numeri con cui comunico abitualmente, ne ho una copia a casa, in un’agenda cartacea che cerco di tenere più o meno aggiornata. E quanto al fatto di non poter telefonare dal treno, non è nemmeno peritonite. Non ci sono più cabine pubbliche, è vero; ma quando arriverò all’albergo nella città in cui andrò, potrò usare il telefono della mia stanza, come al solito. Tengo sempre la mezza dozzina di numeri fondamentali scritti su una tessera, nel portafoglio. E gli altri possono aspettare.
Comunque. Grazie a questo inconveniente mi guardo intorno e avverto l’elevazione morale, l’intima sfrontatezza dei sentimenti – sono sarcastico, non chiamatemi arrogante o fascista, che ferisce la mia sensibilità – l’ultimo uomo libero sulla Terra, come Charlton Heston in quel meraviglioso film, ormai dimenticato, che in Spagna si intitolava L’ultimo uomo vivente. Perché sono su un treno, in viaggio, circondato da persone che parlano al cellulare e ho appena perso il mio ma porto comunque con me tutto quello che mi serve. Ad esempio, i biglietti del treno stampati a casa dal computer – ho visto troppe persone incaute bloccate all’imbarco, che puntavano disperatamente il dito sui treni e sugli aerei, perfino alle porte dei cinema. Anche le carte di credito che mi accompagnano sono divise tra il portafoglio e lo zaino, nel caso perdessi o mi rubassero l’una o l’altra, e porto con me anche una discreta quantità di contanti, perché in questo mondo di banche senza personale, i cosiddetti bancomat, bancomat e banche gestite da veri figli di p... che non ti garantiscono nemmeno la sicurezza, la plastica è responsabilità del diavolo. Inoltre, in questo modo nessuno potrà localizzarmi o hackerarmi.
E bene. Cosa posso dire. So benissimo, perché non sono un completo idiota, che tutto questo, intendo dire il mio relativo sollievo oggi, è solo una trincea temporanea. Che a poco a poco – è più comodo così, sostengono i mascalzoni e gli idioti – quelli di noi che cercano di mantenersi relativamente liberi vengono messi alle strette, senza alternative, costringendoci a dipendere sempre di più dai meccanismi suicidi che prendono il sopravvento sul mondo. Ma ascoltate: siamo mulattieri. Nessuno potrà toglierci l’ultima risata quando tutto andrà a rotoli.