il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2023
Sul raptus
Raptus. Parola magica tornata in carrozza nelle cronache giudiziarie per spiegare un delitto efferato. Dice il dizionario che in psichiatria significa “l’atto improvviso e violento col quale il malato si volge contro sé stesso o contro un’altra persona”. Aggiunge che può indicare aulicamente anche “il rapimento nel culmine dell’ispirazione poetica o nell’ascesi mistica”. Mentre nel linguaggio comune designa (spesso scherzosamente, si precisa) un “impulso incoercibile, che condiziona il comportamento”.
Vi è comunque accordo sul fatto che il termine si radichi nel latino classico, in cui significa, senza equivoci, “rapimento”. Potrà dunque anche avere, la parola, una valenza mistico-poetica, ma ha più profondamente un contenuto di violenza. Specialmente verso la donna, principale oggetto dei rapimenti nella storia o nella mitologia. Per amore ricambiato, come quello di Elena, che però “infiniti addusse lutti agli achei”. Ma soprattutto per punizione, vendetta, bramosia, spirito di possesso o di conquista, come quello di Proserpina da parte di Plutone. Il più famoso episodio di massa che ne incontriamo nella storia italica è il ratto delle Sabine, leggenda romana sulla quale si applicarono anche Plutarco e Tito Livio. I romani che attirano i sabini in un tranello, invitandoli alla festa del dio Conso e che a un segnale di Romolo si prendono per sé le ospiti più giovani, allo scopo di popolare la propria città, giovane e troppo maschile. Con la guerra tra le due parti scongiurata proprio dalla interposizione delle donne. Chissà come andò veramente. Fatto sta che è straordinariamente simbolico che il rapimento più famoso della storia patria sia stato compiuto per impossessarsi di donne “amiche” da mettere al servizio delle proprie ambizioni di dominio. E risulta ben strano che dopo millenni si usi quello stesso termine – “raptus” – in senso rovesciato. Non per raccontare una violenza, ma come alibi, pronto soccorso, salvataggio su base scientifica (la psichiatria…) per chi l’ha commessa: per l’uomo accanitosi sulla donna con l’intento di assoggettarla a sé, o di punirla per avergli resistito. E invece il rapimento – ovvero il fenomeno originario – c’è sempre. È quello della donna e sempre più della sua stessa vita, sottratta a questo mondo come prezzo della ribellione proibita. Eccolo il “raptus” vero su cui si dovrebbero affannare giudici e avvocati, psichiatri e psicanalisti giunti al cospetto del femminicidio. L’altro è nozione priva di qualsiasi potenziale giustificativo. Maschera per una violenza senza “attenuanti”. Originata non da totale perdita della ragione ma da calcolo, pur se talora istintivo, dei rapporti di potere tra l’assassino e la vittima. Stabiliti (dentro di sé) dal carnefice comparando la forza propria e quella altrui. Vanificando dunque in radice l’accezione dell’“improvvisa perdita di senno”. Ad agire infatti (salve alcune specifiche tipologie di terroristi) sono persone consapevoli della differenza di potere fisico di cui godono rispetto alla propria vittima. Sparo con un fucile da una finestra sulla folla inerme. Stermino gli alunni innocenti di una scuola per rivalermi di presunti torti passati. Uso la mazza da baseball, il coltello da cucina, i pugni e i calci, il cric dell’auto, la morsa ferrea delle mani, la pistola, contro chi non può difendersi o è comunque destinato a soccombere. Mai si è visto un mingherlino alto 1.60 andare per improvviso raptus all’assalto a mani nude di un gigante armato di tirapugni. Mai visto uno squilibrato col pugnale andare all’assalto di un plotone di soldati o di poliziotti armati. Sarebbe ora di restituire alla logica un primato sulle (pur nobili) traslazioni linguistiche. E di stabilire con lucidità, e non subendo la forza di gravità delle consuetudini, se l’individuo finito davanti ai giudici è stato vittima di un raptus o ne ha commesso uno. Il peggiore di tutti.