Corriere della Sera, 10 dicembre 2023
Una riflessione di Giovanni Bazoli
Processo e pena vengono percepiti, nel diffuso sentire e nella quotidianità del linguaggio, come un prima e un dopo, un presupposto e una conseguenza. Il processo si conclude con il giudizio; la pena è irrogata nella sentenza. Due diversi momenti dello stesso cammino: nel processo si muovono le figure del giudice e dei difensori, l’imputato ne è quasi semplice oggetto; nella pena, invece, il condannato sta chiuso al centro dell’immagine, e tutta la tiene e domina. L’imputato, che finora era assistito dalla presunzione di non colpevolezza, è ormai colpevole per forza di sentenza, e perciò «recluso». Cioè, separato, reso estraneo, abitante in un «mondo a parte».
Queste immagini sono dettate da una sorta di semplicismo scolastico, comode per tutti gli usi, fruibili in ogni occasione. Ma la stessa sentenza di assoluzione incrina un quadro così appagante: l’assolto, colui che è stato sciolto dalla imputazione, ha vissuto, anch’egli, il processo. Il grande Beccaria aveva già intuito il problema: l’assolto ha subìto la sofferenza del processo: «Qual è dunque quel diritto se non quello della forza, che dia la potestà ad un giudice di dare una pena a un cittadino mentre si dubita se sia reo o innocente?».
Questa lunga e operosa sequenza di fatti – «avvisi», interrogatori, ispezioni di cose e luoghi, confronti testimoniali, e tutte le risorse investigative suscitate dal sospetto o dagli «indizi» – si va ormai svolgendo. C’è un uomo «indagato», su cui si accendono luci di stampa e di televisione; e nulla egli può proteggere della propria vita, né affetti, né amicizie, né pagine di segreto diario: «indagine» è proprio questo guardar dentro l’esistenza altrui, forzarne i cancelli, e trascinare l’intimità nel cerchio mediatico. Alla sofferenza di questa irruzione occhiuta e pervicace si aggiunge l’angoscia dell’attesa, una nuda e disperata aspettazione della parola giudicante. Ancora la voce di Beccaria: incertezza, «la più crudele carnefice dei miseri».
La proposta
Occorre considerare la durata del processo nell’equo calcolo della pena irrogata al colpevole
Ecco che il processo, considerato nella sua essenza di angoscia e di attesa, si rivela come una pena, un’afflizione del corpo e dell’animo. Un libriccino di Giovanni Bazoli, edito con riservata sobrietà da un editore bresciano (La Quadra) e preceduto da una sensibile nota di Tino Bino, ci pone di nuovo dinanzi alla identità fra processo e pena. È la dichiarazione resa da Bazoli il 14 settembre 2021, alla fine del dibattimento dinanzi al Tribunale di Brescia, che lo assolse, al pari della successiva Corte d’Appello, da ogni accusa. Nove anni durò il processo; e la sobria e lucida prosa di Bazoli ne fa avvertire la tensione emotiva e l’interiore dignità civile.
Il titolo, Il processo e la pena, può ben convertirsi in «il processo è pena». La tormentosa indagine muta l’esistenza stessa dell’uomo, che si ripiega nella memoria, ripercorre l’intera vicenda, e rimane in attesa. Se c’è un giurista, un eminente studioso di diritto capace di cogliere la pena del processo, questi è stato Francesco Carnelutti, giunto, negli anni estremi del suo magistero, alla cattedra romana di Diritto processuale penale. La prolusione del 1946, che è documento di alta cultura giuridica e di estrema finezza spirituale, muove da una premessa: «Il diritto penale è il diritto del dolore». Dolore, sì, del reato compiuto, ma anche dolore del processo che non conosce distinzione tra innocenti e colpevoli, e tutti avvolge nella sofferenza e nell’attesa del giudizio.
Le pagine di Bazoli, riaprendo il problema e lasciando intravvedere la terribile equazione tra processo e pena, impongono una concreta scelta legislativa: ossia di considerare la durata del processo, come tale, nell’equo calcolo della pena irrogata al colpevole. La sofferenza del giudizio non può essere isolata dalla sofferenza della sanzione: è, essa stessa, già condanna dell’imputato colpevole; già capitolo di quel «rieducare», che l’articolo 27 della Costituzione stabilisce come finalità della pena. La durata di quella sofferenza non va cancellata dalla realtà né dal «conto» che la società presenta al colpevole. Anche il processo appartiene al diritto del dolore. Superato è il dualismo tra processo e pena, poiché ambedue si raccolgono sotto il segno dell’angoscia, e rivelano che anche l’innocente ha patito la sofferenza dell’indagine e atteso la parola del giudizio. Ma se il processo ha tale carattere, ed è già un male del vivere, allora la sanzione deve farne il giusto conto e trarlo nella misura della condanna. La durata del giudizio, qualche che ne sia il definitivo risultato, come che si risolva l’incognita tra innocenza e colpevolezza, è, essa stessa, una pena dolorosa.