Corriere della Sera, 10 dicembre 2023
Intervista a Vincenzo Mollica
Vincenzo Mollica, come eri da bambino?
«Sono nato vicino a Modena, poi sono subito partito per il Canada dove i miei genitori, emigrando, raggiunsero i loro. Lì ho fatto la prima elementare. Avevo una bicicletta con cui giravo per Toronto. Un immigrato triestino mi insegnò a far rimbalzare le pietre piatte sulla superficie dell’Ontario. Mia nonna era cuoca nella mia scuola, ricordo che andavamo insieme con l’autobus e mi facevano sedere, con mio grande orgoglio, vicino all’autista. I miei genitori si separarono, ho conosciuto mio padre la prima volta quando avevo 7 anni».
Vedevi la televisione in Canada?
«Era un paradiso, trasmettevano 24 ore al giorno e su venti canali. Vedevo Popeye e Superman. Ricordo la sigla in cui Superman correva e riusciva a prendere con la mano un proiettile appena sparato. Trasmettevano i cartoni Disney e io mi rendevo conto che tra quei disegni animati e la realtà c’era poca differenza. Uscivo di casa e tutto era fiabesco, le strade innevate, gli scoiattoli...».
Dopo la prima elementare sei tornato in Italia...
«In Calabria, a Motticella, vicino a Brancaleone, dove ho fatto gli studi. Lì, da ragazzo, avevo una stanza in cui c’era un piccolo registratore Geloso, tanti vinili, i libri di poesia e di teatro pubblicati dalla Einaudi. Divoravo Eduardo e Brecht. Mi appassionai ai gialli di Maigret. La tv cominciava al pomeriggio, con la tv dei ragazzi. Rin Tin Tin, Ivanhoe, Zorro, I Forti di Forte Coraggio, Bonanza. La mia vita bambina cominciava a nutrirsi di storie, di personaggi, di fantasie. Vidi Biancaneve, che mi colpì tanto, e i film di Don Camillo e Peppone. E poi mi persi nelle Cantate dei giorni pari e dei giorni dispari di Eduardo De Filippo e soprattutto nei Fratelli Karamazov, un romanzo in cui trovi risposte per ogni domanda della vita».
Mi racconti quando conoscesti tuo padre?
«Arrivammo con una nave a Napoli, mia madre e io. Non si parlava tanto di papà in famiglia. Quando lo vidi gli diedi la mano, educatamente. Lui mi abbracciò e da quel momento diventò mio padre. Aveva capito che la mia passione erano i fumetti. Mi portava a Bovalino dove c’era un’edicola e mi riempivo le mani di Braccio di Ferro, Cucciolo e Beppe, Tiramolla, Topolino, l’Intrepido, Il Monello, Il Corriere dei Piccoli. Anche grazie a lui, in fondo, anni dopo sono persino diventato un personaggio di Topolino, Vincenzo Paperica».
Come nacque, in te, la vocazione per il giornalismo?
«Avevo visto una serie di film americani sul mondo dei giornali. C’erano Clark Gable, Humphrey Bogart... Mi sembrava tutto meraviglioso. Fellini mi disse che a lui era successa la stessa cosa. Quel lavoro, quella passione che lo portò al Marc’Aurelio, gli era nata vedendo una scena di Dieci in amore, quando Clark Gable entra in redazione e lancia il cappello sull’attaccapanni, centrandolo perfettamente. In realtà io sono un grande ascoltatore di storie, non farei altro nella vita. Le cerco, le stano come uno speleologo e le fisso sulla carta, quando gli occhi me lo consentivano, ora nella mente. Mi piace il succo della storia, ma anche il modo di raccontare. Non esistono mai due storie uguali al mondo. Per me il giornalismo, quello vero, è racchiuso in tre parole: curiosità, fatica, passione».
L’altro tuo amore, e disciplina di espressione, è il disegno. Come è nato?
«Nella mia stanzetta, mentre registravo con il Geloso le canzoni del Disco per l’estate trasmesse alla radio, riempivo fogli e fogli con gli acquarelli. Volevo riprodurre la realtà, o la mia immagine della realtà. Cercavo il giusto rosso per le foglie d’acero in autunno e prediligevo l’Indian Yellow, che si trova in ogni cosa abbia disegnato. Era il predominante delle mie scelte cromatiche. Per Tamara De Lempicka era il bianco, per Caravaggio il nero. Per Vincenzo Mollica bambino e adulto è stato quel giallo, che mi ricordava la luce del Canada. Ma il mio sogno, non esaurito, è sempre stato riempire il mondo di colori. Mi davano e mi danno gioia. Anche ora che li ho solo nella memoria».
Eri bravo a scuola?
«Nel mio paese, in Calabria, c’era una sola aula in cui si facevano tutte insieme le classi delle elementari. In quarta il maestro mi corresse un tema. Io avevo scritto, non per caso, le parole “la radio” e lui l’aveva corretta in “l’aradio” e poi mi aveva messo un segno rosso vicino alla parola “duomo” correggendola con “d’uomo”. A quel punto mio padre mi ritirò e finii dai salesiani. Poi il classico a Locri e l’università alla Cattolica di Milano».
Cosa studiavi?
«Non esistevano, allora, le facoltà di giornalismo. Si diceva che era utile studiare giurisprudenza. Lo feci. Fu un periodo di grande vitalità, erano anni così. Gianfranco Bettetini organizzava un cineclub in cui vidi i film della contestazione americana e le personali di Fellini e Visconti. Per fare qualche lira andavo a fare il figurante nelle trasmissioni Rai, mi dicevo da solo che ero diventato un “mercenario dell’applauso”. Ma lì conobbi mia moglie Rosemarie. Era il 14 febbraio 1973 ed eravamo a un concerto di Giorgio Gaber. Giravamo a bordo di uno scooter arancione e con i soldi degli applausi ci compravamo succulenti panini con il würstel e budini in una latteria di via Dante. Ho fatto il servizio d’ordine per Dario Fo alla Palazzina Liberty e, con Rosemarie, ascoltavamo nei club Enzo Jannacci e non perdevamo nessuna proiezione di un cineclub che faceva film d’essai».
Stai raccontando davvero te stesso. I Karamazov e Tiramolla, Brecht e Jannacci. Tu sei sempre stato «pop». Ma forse lo è stata la tua generazione, educata alla riproducibilità dell’arte.
«Ho sempre pensato che Dostoevskij stesse benissimo vicino a un album di Fabrizio De André. E che l’arte fosse fatta per le persone, non per gli artisti stessi. Ho un’adorazione per la nostra lingua, ho il culto delle parole. Oggi spesso si scrive seguendo un automatismo, figlio della velocità, che tutto rende uniforme e piatto. La scelta delle parole, quelle da usare e quelle da scartare, è fondamentale. E ora che i miei occhi non vedono, le parole mi sembrano ancora più importanti».
Quando hai capito che avresti perso la vista?
«L’ho scoperto a sette anni. I miei mi avevano portato a fare una visita in un Comune chiamato, pensa tu, Ardore. Si erano accorti che qualcosa non andava, dall’occhio sinistro non vedevo. Loro erano rimasti nello studio del medico, io nella sala d’attesa, a origliare. Sentii distintamente: “Devo dirvi che vostro figlio diventerà cieco”. Loro erano scioccati e non mi riferirono nulla. Io andai a casa e cercai quella parola sul vocabolario. Ma non avevo bisogno, bastava che chiudessi l’occhio destro e precipitavo nel buio».
Come hai fronteggiato l’avanzare della malattia?
La moglie
Per fare qualche lira
facevo il figurante
nelle trasmissioni Rai,
ero un mercenario dell’applauso: ma lì conobbi Rosemarie
«Fin da allora ho adottato una tecnica. Ho mandato a memoria tutte le strade, tutte le stanze, tutti gli alberi. Li so, per averli visti. Per verificare chiudevo l’occhio destro e controllavo se la mia memoria aveva immagazzinato tutto. A Sanremo o a Venezia mi bastava uno sguardo per fare una panoramica di luoghi e persone. Ho sempre scritto tutto a mano, ma negli ultimi anni non ho più potuto farlo. Così gli articoli ora me li compongo nella testa, come fosse un foglio bianco. Voglio sentire, in qualche modo vedere, le lettere che si assemblano: la forma austera della B, il carattere sbarazzino della T. Per tutta la vita ho sempre girato con un bloc-notes nella tasca. Ogni tanto, infatti, Alda Merini mi telefonava per dettarmi una delle sue poesie. E io dovevo essere pronto per trascriverla».
Vincenzo, tu sei una delle poche persone a cui tutti, indistintamente, vogliono bene.
«Dici? Non me lo spiego. Non mi ero accorto di così tanto affetto come da quando sono in pensione. Posso solo dirti che ho sempre cercato di comportarmi bene e non ho mai negato a nessuno un sorriso, che è sempre stato, è anche oggi, l’espressione del mio modo di guardare alla vita. Io in effetti non parlavo male dei film o dei dischi che non mi piacevano. Se potevo non ne parlavo, oppure usavo l’arma dell’ironia. So quanta fatica c’è nella realizzazione di una qualsiasi opera dell’ingegno e mi sembra giusto rispettare sempre quel lavoro. Ho imparato da Emilio Rossi e Nuccio Fava, al Tg1, e da Enzo Biagi a Linea Diretta cosa significa servizio pubblico. Significa davvero mettersi al servizio del pubblico e pensavo che il mio dovere fosse sempre proporre qualcosa che mi era piaciuto e mi aveva emozionato».
Come è stato il tuo impatto con il telegiornale?
«Quando arrivai non c’era l’abitudine, salvo morti e festival, di parlare di cinema o di fumetti nel telegiornale, che finiva sempre con lo sport. Per me arrivare al Tg1 era come sbarcare a Disneyland. Lello Bersani è stato fondamentale. Lo tempestavo di domande sul mondo del cinema. Una volta mi disse: “Ti voglio far capire cosa significa il cinema per me”. Eravamo nel suo ufficio, c’era una moviola. Lui aprì un cassetto ed estrasse un album di velluto rosso. Era quello delle foto di scena de “Il Gattopardo”, un dono della produzione per i giornalisti che avevano seguito le riprese. Il cinema non è solo il film. È un mondo grande e conta quello che resta dentro di te di un film, di una scena, di un incontro. Nel 1981 Lello mi prese da parte e mi disse: “Io non conto un ca... ma mi piacerebbe che tu prendessi il mio posto. Chiederò intanto che tu, d’ora in poi, mi faccia da secondo”. Poi tirò fuori la sua agenda del telefono e mi disse solo: “Copia”. C’erano i numeri di tutti: Rossellini, De Sica, Visconti... Una miniera d’oro. E io copiai i numeri dei vivi e dei morti, non si sa mai. Infatti una volta avevo bisogno di parlare con il figlio di Anna Magnani e non sapevo come trovarlo. Feci il numero dell’agendina di Lello e lui mi rispose».
Parliamo del tuo amico Federico Fellini. Lui ti amava, ricambiato.
«Voglio darti un ricordo familiare. Quando andavamo insieme con le famiglie a pranzo fuori, Federico era affascinato da un nostro rituale, figlio di un lessico famigliare che comportava il fatto che mia figlia Caterina mangiasse solo se Rosemarie le raccontava una storia, anzi una fiaba. Federico si perdeva in questa scena e cominciava a disegnare i personaggi del racconto di mia moglie sui tovaglioli di carta. E così Caterina viveva in un cartone animato che si faceva all’istante con la voce di sua madre e i disegni di Federico Fellini. Voleva bene a Caterina e si informava sempre di quello che faceva. Lui aveva grande curiosità per i bambini, forse non avere figli è stato il grande vuoto della sua vita. Federichino, infatti, è morto quando aveva undici giorni. E lui, che non ha mai smesso di essere bambino, si cercava in quelli che considerava suoi simili».
Quanti disegni ti ha regalato?
«Quando lavoravamo insieme lui prendeva appunti, spesso in forma di disegni, e li buttava nel cestino. Io li riprendevo e li mettevo in una cartella. Una volta venne qui, nel mio studio, che è pieno di libri meravigliosi che pensavo di leggere quando fossi andato in pensione. Ora li sogno, di notte. Presi coraggio e gli chiesi se me li firmava. “Quanti sono?”, mi chiese. “Più di cento”, azzardai io. “Dammi una matita”... Il suo film che ho più amato è La strada. Insieme a Tempi moderni mi ha insegnato che la vita può essere sempre altro. Chaplin una volta disse che in quel film aveva visto, in Giulietta, “Charlot in gonnella”».
Dimmi un film che porteresti su un’isola deserta.
«Chi ha incastrato Roger Rabbit. C’è tutto lì dentro. Molto di più di quello che si vede. Come spesso accade per i cartoni animati. Biancaneve, per esempio. Eisenstein diceva che era “una goccia di acqua pura che cadeva nell’inferno” e Federico ne amava la parte gotica, con la trasformazione degli alberi e tutto il resto».
E un libro?
«Un romanzo breve di un nostro comune amico, che ora non c’è più, Daniele del Giudice. Si intitola Nel museo di Reims. È la storia di un ex ufficiale di Marina che sta perdendo la vista e va per l’ultima volta a vedere il ritratto di Marat assassinato di David. Lì incontra una donna, Anne, che vuole raccontargli il quadro. Sono poche pagine, fondamentali».
Che musica vorresti ascoltare su quell’isola?
«Quella di un poeta e di un musicista, Paolo Conte. Il suo album Un gelato al limon, che contiene Bartali e Sudamerica, è la prova della sua maestà. Azzurro, da lui scritta, è un capolavoro e l’interpretazione di Celentano, ineguagliabile, le rende onore. Ma c’è un brano in particolare che mi staziona nel cuore. È Santa Lucia di Francesco De Gregori».
Ho sempre pensato anch’io che fosse il più bello di tutte le sue meraviglie.
«Ricordi quelle due frasi? “Santa Lucia, per tutti quelli che hanno gli occhi e un cuore che non basta agli occhi”. E poi come si conclude: “Fa’ che gli sia dolce anche la pioggia nelle scarpe, anche la solitudine”. Quella canzone mi ha regalato un grande, importante, conforto per la mia vita».
Cosa ti manca di più, ora che non hai più la possibilità di vedere le cose del mondo?
«Per come sto accettando quello che mi sta succedendo, direi che non mi manca niente. Mi sono abituato fin da quando ero bambino. Ho sempre visto e non visto. Con gli occhi ero mono, non stereo. Ora si sono rotti. Mi mancano i volti di mia moglie, i suoi occhi azzurri e il suo sorriso, mi manca il volto di Caterina e la sua luce. Una volta Camilleri mi disse, lui che aveva il mio stesso problema, il glaucoma, come Totò: “Ricordati sempre di non perdere la memoria dei colori. I tuoi sogni, vedrai, saranno nitidi, vividi, come in tre dimensioni, le immaginazioni saranno forti, la tua memoria ti restituirà tutto come proiettato su un grande schermo, con una nitidezza che tu non hai mai conosciuto”. Ho scoperto che non vedere è anch’essa un’arte. Ti spinge a ricercare un’altra arte, quella di arrangiarsi. Saper accogliere tutto quello che ti arriva dalla vita con semplicità, magari tenendo sempre in tasca un sorriso di riserva, e cercare di gustare quello che l’esistenza ti regala: ascoltare della bella musica, annusare il profumo dei fiori, gustare le cose da mangiare, sentire la forma delle cose attraverso le mani, anche andare a sbattere. Grazie a Dio ho arricchito la memoria delle cose che ho amato. Nel mio buio rivedo i film, ascolto la radio, e curo con più attenzione gli incontri con le persone. Ho più curiosità, sono più attento. Non ho mai smesso di fare, da quando ho perso la vista».
C’è un’immagine di un film che, ora, vedi con più nitidezza?
Il film
Mi commuovo per la scena finale di Tempi Moderni, quando Charlot dice alla monella disperata di sorridere,
è la più bella di sempre
«L’ultima scena di Tempi moderni, il film più bello della storia del cinema, l’immagine più bella che sia mai stata concepita. Quando Charlot dice, alla monella disperata, di sorridere. Lo fa con un gesto, solo con un gesto della mano».
In questo momento, solo in questo momento, parlando di un film, di un’immagine, di quel gesto, di quel sorriso come medicina per il dolore, Vincenzo Mollica si commuove.