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 2023  dicembre 10 Domenica calendario

Terroristi e no: vecchia storia


Quando Euno, schiavo di origine siriaca, innescò e capeggiò la rivolta degli schiavi ammassati in Sicilia dai loro padroni italici, la loro violenza fu quasi indiscriminata. Le violenze compiute a danno degli ex padroni furono impressionanti. Questi fatti si svolsero negli anni 135-131 a.C. Contemporaneamente, a Roma, si sviluppava la crisi politica culminata nella liquidazione fisica di Tiberio Gracco e di molti suoi seguaci (133 a.C.), ammazzati a colpi di spranghe di legno da un folto manipolo di senatori capeggiati da Scipione Nasica.
Ci si può con ragione domandare se definire «terroristi» entrambi, sia Euno sia Scipione Nasica. Effettivamente si adopera tale termine, in riferimento alle più diverse situazioni storiche, al fine di definire e classificare categorialmente coloro che ricorrono a metodi di lotta «irregolari». E vi si ricorre o perché inferiori di forze rispetto all’avversario che si intende abbattere (o almeno combattere) o perché persuasi che una strada compendiaria e sbrigativa si imponga contro un pericolo incombente che non tollera indugi.
Perciò, nella categoria «terrorismi» rientra anche il cosiddetto tirannicidio. Rubrica, quest’ultima, in cui si fanno rientrare episodi diversi, caldeggiati o deprecati o mitizzati a seconda dei punti di vista. Esempio piuttosto celebre l’uccisione di Ipparco, figlio di Pisistrato, in Atene (514 a.C.): gesto considerato, dalla tradizione patriottica ateniese, fondativo della democrazia, ma da Erodoto e ancor più da Tucidide classificato come crimine non politico ma di matrice strettamente privata. E anche il più noto ammazzamento proditorio della storia, quello di Cesare in pieno Senato il 15 marzo del 44 a.C., è stato pomo della discordia tra opposti schieramenti per un paio di millennî. «Terroristi» furono anche definiti i promotori e gli artefici del «Grande Terrore» nella Francia a guida giacobina (1793-1794).
Ancora oggi, un potere forte, se contestato con attentati, definisce gli attentatori «terroristi». Questo fu abituale, ad esempio, durante i 18 mesi di vita della Repubblica sociale italiana (Rsi). Banditen era l’epiteto con cui i partigiani combattenti venivano definiti dal maresciallo Albert Kesselring, comandante delle truppe d’occupazione tedesche in Italia, nonché dal governo della Rsi. E una tale qualifica perdurò saldamente nella storiografia di ispirazione neofascista che vigoreggiò in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta, nonché nelle ricostruzioni storiografiche di larga divulgazione promosse dal qualunquismo sedicente equanime di ispirazione conservatrice e comunque anti-resistenziale. Al contrario, la storiografia di ispirazione resistenziale diede al partigianato combattente un rilievo e un ruolo che andava forse pure al di là del suo effettivo contributo alla sconfitta della Rsi.
In questo contrasto di valutazioni che discende dall’esperienza diretta delle parti che allora si scontrarono si inserì già subito, nel 1946, un libro che fu al tempo stesso testimonianza resa da un autorevole protagonista e tentativo di riflessione storiografica sul movimento di liberazione in Italia. Ci riferiamo al saggio storico di Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, che racconta quelle vicende dal punto di vista di un dirigente del Partito d’Azione direttamente partecipe della organizzazione clandestina. E proprio Valiani faceva ricorso, in quel libro, al termine «terrorismo», adoperato da lui in senso niente affatto demonizzante, per indicare gli attentati anche clamorosi (anche controversi) che caratterizzarono alcuni momenti della lotta di liberazione. Scrive Valiani: a) che ci fu un dibattito tra le varie componenti del Comitato di liberazione nazionale (Cln) intorno alla opportunità di fare ricorso al «terrorismo»; b) che al termine di tale dibattito si concluse per la necessità di farvi ricorso al fine di spezzare l’attesismo di quella che potremmo definire una «maggioranza silenziosa»; c) che tutte le forze politiche, non solo i comunisti, lo praticarono.
È significativo che, ristampando quasi quarant’anni dopo il suo libro, Valiani abbia ritoccato proprio quelle pagine del suo scritto facendone quasi scomparire la nozione di «terrorismo» o prendendone discrete distanze. La cosa si comprende: non solo perché, nel frattempo, il tentativo maldestro e poco seriamente motivato di rilanciare la pratica degli attentati da parte di frange (notoriamente «infiltrate») della ultrasinistra anticomunista aveva mietuto (inutilmente) vittime, ma anche perché lo stesso autore – dopo un tempo non breve e in una nuova temperie politica – non si riconosceva più in toto in quelle sue valutazioni fatte a caldo. Analoga constatazione può farsi osservando il divario tra l’approvazione piena e convinta da parte di un altro esponente azionista, Carlo Dionisotti, dell’attentato contro Giovanni Gentile (15 aprile 1944) sul giornale clandestino piemontese di «Giustizia e Libertà», e il ripensamento dello stesso Dionisotti vent’anni dopo.
Si tratta, in entrambi i casi, di itinerarî storiografici che impongono una domanda: se cioè debba accogliersi la valutazione fornita da un autore quando è immerso nella vicenda nel suo farsi e ha ancora la percezione diretta di ciò che invece gli storici poi faticosamente e solo in parte recuperano (il «clima», gli stati d’animo, la spietatezza e il dolore) ovvero il rifluire dello stesso autore in una valutazione condizionata dall’affievolirsi del ricordo vivo, e vissuto nell’atmosfera stessa dei fatti narrati. Questo dilemma riguarda, invero, lo scrivere storia in quanto tale, non soltanto la storia del terrorismo. Ed è, almeno in parte, dilemma insolubile: cui può tentare di porre rimedio il necessario sforzo volto a recuperare, accanto alla trama fattuale, anche quella umana.
Altri strumenti d’indagine richiede un tutt’altro terrorismo: quello che promana da apparati deviati dello Stato, come quelli – ad esempio – chiamati in causa dal presidente della Repubblica, lo scorso 2 agosto, a proposito dell’attentato terroristico alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980. E ben sappiamo ormai che analoghi retroscena vanno presupposti all’origine anche dell’attentato del 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano. In questi casi l’indagine si rivela particolarmente ardua in ragione proprio dell’opacità degli apparati dello Stato e soprattutto dei segmenti loro «devianti», provocatorî o, ancor peggio, collegati a servizi di intelligence stranieri. Lì la ricerca si arena, si scontra con barriere di omissis. Le quali, in ultima analisi, avvelenano il clima: hanno il solo risultato di alimentare ricostruzioni congetturali, talora sovreccitate, che contribuiscono semmai a determinare un effetto contrario a quello che la «trama» si proponeva di produrre.