Corriere della Sera, 10 dicembre 2023
Intervista a Francesco Guccini
«De André è l’artista che mi assomiglia di più, di Dalla dicevano fosse figlio di Padre Pio». Meloni e Schlein, il Pci e l’anarchia, i segreti delle canzoni: Francesco Guccini racconta una grande storia italiana.
Il Limentra fa davvero un suono continuo e ossessivo, e Francesco Guccini vive davvero nell’antica casa di famiglia a Pavana, sull’Appennino al confine tra Toscana ed Emilia. Dall’altra casa di famiglia, il Mulino, il prozio Enrico – Merigo in dialetto pavanese, Amerigo, come Vespucci, nella memorabile canzone – partì per estrarre carbone in America: «E fu lavoro e sangue e fu fatica uguale mattina e sera/ per anni da prigione, di birra e di puttane, di giorni duri/ di negri ed irlandesi, polacchi ed italiani nella miniera/ sudore d’antracite in Pennsylvania, Arkansas, Texas, Missouri...».
Guccini, ricorda ancora il prozio Enrico?
«Sì. Ma per me non era un minatore; era un cowboy».
«Il cinto d’ernia sembrava una fondina per la pistola».
«Enrico era il fratello di mio nonno Pietro. Avevano due sorelle, Teresa e Peppa, che morì di parto; anche se un giornalista ha scritto che era morta di fame. Zia Peppa aveva sposato un falegname socialista: i fascisti gli bruciarono la falegnameria, e lui partì esule in Francia, ad Antibes, che chiamava Antibo. Da Pavana in tanti andarono in America prima della guerra, e tornarono con due soldi. Poi gli americani arrivarono da noi».
Qui passava la linea gotica.
«Un poco più a Nord».
Com’erano i tedeschi?
«Affamatissimi. Pretendevano frittate da venti uova. Avevamo allevato un maialino, e lo nascondemmo in una casetta a Pian del Cerro. Un giorno i nazisti vennero a bussare alla nostra porta. Tememmo per il maialino. Cercavano invece i prigionieri russi che erano scappati, uno l’aveva trovato il nonno nel campo di granturco, ferito, e l’aveva messo in salvo. I tedeschi se ne andarono nell’autunno del ’44».
E gli americani?
«Non avevo mai visto un nero, non avevo mai masticato un chewing-gum, e ovviamente non avevo mai bevuto quel liquido scuro e buonissimo che chiamavano coca-cola. Così gli americani venivano a mangiare la pastasciutta al mulino dai nonni, mentre io andavo alla loro mensa, in cerca di leccornìe come l’ananas in scatola e la cioccolata, che andavo a mangiare da solo di nascosto in riva al fiume, il Limentra, che in realtà è un torrente. Ancora custodiamo una foto con dedica – “a esta familia amiga minha dedicação” – di un soldato brasiliano, un mulatto di nome Octaviano».
Brasiliano?
«Il dittatore Getulio Vargas aveva mandato in Italia la Força Expedicionária Brasileira, anche per sbarazzarsi degli idealisti di sinistra che volevano combattere il nazifascismo. Tra loro c’era pure un reparto di sciatori. E c’era un musicista famoso, di cui non ricordo il nome, che una sera arrivò con la chitarra per farci sentire le sue canzoni; ma qualcuno ridacchiava, e lui se ne andò offesissimo».
Lei non cantava?
«Per i soldati della Quinta Armata tenni la mia prima esibizione canora: Lay that pistol down di Bing Crosby, che pronunciavo leichepistoldà. Con gli americani giocavamo a tombola: “Play bingo!”. Mia madre Ester si convinse che tombola in inglese si dicesse plebingo».
Chi vinceva?
«Ricordo un nero che perdeva sempre e scappava sotto il camino a piangere; fino a quando gli altri, commossi, non gli restituivano i soldi».
Anche suo padre fece la guerra.
«Ne fece due: quella d’Africa, poi la Grecia. Cadde prigioniero a Corinto, lo chiusero nel campo di concentramento dove c’era anche Giovanni Guareschi».
Gli internati militari in Germania: anche quella fu Resistenza.
«Prima arrivò a casa la cartolina di un commilitone: “Ferruccio Guccini mi incarica di avvertirvi che sta tornando”. Tornò mentre eravamo in chiesa. Arrivò la zia di corsa reggendo il grembiule con le mani: doveva essere successo qualcosa di importante».
Era la prima volta che vedeva suo padre?
«Sì. Avevo cinque anni. Portava con sé un quaderno scritto in caratteri piccolissimi per risparmiare carta, con inchiostro annacquato per risparmiare inchiostro: era pieno di ricette, compilate nell’illusione di vincere così la fame. Aveva la divisa stracciata, ma non era magro: liberato dagli inglesi, si era rimpinzato. Per prima cosa fece il bagno nel bottaccio del mulino. Gli chiesi: papà, mi insegni a nuotare? Mi gettò in acqua. A momenti affogo».
È vero che lei è tifoso della Pistoiese?
«Ho simpatizzato. In realtà sono juventino. Allo stadio però sono andato una volta sola, nel 1948: Modena-Sampdoria 0 a 0. Una partita orribile, noiosissima».
Modena: «Piccola città, bastardo posto».
«Ma fu la città dei primi filarini. Portai una ragazza, anzi una mina, al cinema – davano una puttanata americana, “L’amore è una cosa meravigliosa” —, e nel buio osai chiederle: vuoi essere la mia mina?».
E lei?
«Rispose: ci devo pensare. In realtà, era un sì. Altrimenti mica ci veniva, al cinema».
Esordio musicale?
«Con gli amici vedemmo un film in cui una band rimorchiava le ragazze, e ci dicemmo: ne facciamo una anche noi. Ne fondammo diverse, dai nomi immaginifici: gli Hurricanes, che vuol dire uragani; gli Snakers, che non vuol dire niente. E poi i Marino’s, in onore del front-man, Marino Salardini. Primo concerto al teatro parrocchiale: Tutti Frutti, Be-Bop-a-Lula. Una ragazza, dal nome molto modenese di Deanna, mi disse che avevamo suonato bene, e mi emozionò moltissimo. E poi The Enchained Sea: in attesa dell’eco meccanico, imitavamo il verso dei gabbiani con penose contrazioni dello stomaco: “Aaah, aaah!”. Con i Gatti suonavamo da ballo».
Cosa suonavate?
«Andava molto Peppino di Capri. Ci esibimmo anche in Svizzera, a Zofingen, vicino a Basilea: non ero mai stato tanto lontano in vita mia, al ritorno raccontai ai miei che le cassette della posta erano gialle anziché rosse».
Nel 1964 scrisse Auschwitz.
«Si sapeva quel che era accaduto nei campi di sterminio, ma non se ne parlava. Nel 1961 il processo Eichmann riaprì la questione. Lessi “Tu passerai per il camino”, “Il flagello della svastica”. Si andava verso il Sessantotto».
Caterina Caselli e Giorgio Gaber la invitarono in tv, dove lei incontrò Battiato.
«Si chiamava ancora Francesco ed era un gran barzellettiere. Come me. Ma le sue barzellette erano inferiori alle mie, che sono autentici capolavori» (Guccini sorride).
Ha amici tra i colleghi?
«Roberto Vecchioni. Sulla barca di Lucio Dalla a Capri ho conosciuto Zucchero: con lui e con Ligabue parliamo dialetto, anche se loro sono reggiani, teste quadre...».
È vero che da giornalista della Gazzetta di Modena intervistò Domenico Modugno?
«Sì, e ancora me ne vergogno. Fui inutilmente aggressivo. Una chitarronata, come Carducci definì il suo inno a Satana».
Modugno la prese bene?
«Malissimo. Telefonò al direttore per protestare».
Spesso i suoi personaggi sono eroi solitari, destinati a una nobile sconfitta: don Chisciotte, Cyrano, Che Guevara...
«Deve essere un fatto generazionale. Vale anche per De André, che canta i vinti e le donne di malaffare. Lui ascoltava Brassens, io Dylan; ma io ammiravo François Villon, il poeta maledetto del Quattrocento, graziato dal re, di cui non si sa che fine abbia fatto».
De André è il cantautore che le assomiglia di più?
«Forse sì, per il tardo romanticismo che ci affascinava entrambi. Anche se lui veniva da un’importante famiglia di Genova. Io vengo da Pavana».
De André era terrorizzato dal pubblico; lei ha fatto centinaia di concerti.
«Ma avevo una paura folle ogni volta. Salivo sul palco con lo stesso terrore con cui affrontavo gli esami all’università».
Chi altri ammira?
«Gino Paoli. La canzone d’autore comincia con Il cielo in una stanza. Una svolta: senza rima, senza ritornello. Ho ammirato anche Sergio Endrigo, che però si era rotto i timpani durante un’immersione e non riusciva più a intonarsi, ricordo un concerto in cui soffriva moltissimo».
Nelle sue canzoni lei canta spesso la fine di un amore. Altrui, come la meravigliosa «Scirocco», o suo. Quale donna si nasconde dietro Eskimo?
«Roberta, la mia prima moglie».
E dietro Farewell? «Ogni volta che piangi e che ridi non piangi e non ridi con me...».
«Angela, la madre di mia figlia Teresa. Abbiamo appena battezzato suo figlio, mio nipote Pietro».
100, Pennsylvania Avenue?
«Eloise, una mia allieva americana al Dickinson College di Bologna. La seguii in Pennsylvania. Era di famiglia progressista: la sola nei sobborghi a non avere la bandiera in giardino. Ma l’unica entusiasta di me era una zia in Florida, che mi fece una lunga telefonata di cui non capii nulla: lei pensava di parlare italiano, in realtà parlava calabrese. Finì con una gran lite, tutti i parenti contro di me, con Eloise che gridava: “Ma io lo amo!”. Fu un trauma. Avevo trent’anni ma ero ancora un ragazzo, immaturo. Ora ho capito la mentalità di quegli americani, e non lo rifarei; ma adesso di anni ne ho 83. Ed Eloise Vitelli è capogruppo democratica nel Senato del Maine».
«E lo vorrei/ perché non sono quando non ci sei...».
«Questa è la canzone per Raffaella, mia moglie. Venne una sera con le amiche da Vito, la trattoria bolognese che frequentavo. Cominciai un corteggiamento lento, rispettoso, d’altri tempi. Mano nella mano, passo dopo passo...».
Da Vito andava anche Lucio Dalla.
«Non siamo mai stati davvero amici. Non avevamo confidenza, Lucio era un tipo un po’ misterioso, a volte scontroso. Della sua omosessualità non parlava mai. Adorava la mamma mentre non aveva mai conosciuto il papà, a Bologna si diceva che fosse figlio di padre Pio. E poi eravamo troppo diversi. Lui cittadino, io montanaro. Mi prendeva in giro: cosa fai tutto il giorno in montagna? E io rispondevo: niente. Anche se in realtà facevo un sacco di cose».
Cosa?
«Camminare, andare a funghi, piantare alberi. E coltivare i miei vizi. Diceva Tom Antongini, il segretario di D’Annunzio: tieniti cari i tuoi vizi, saranno gli unici amici della tua vecchiaia. Io invece ho dovuto rinunciare a sigarette, donne, libri. Particolarmente doloroso l’addio ai libri. Ma non ci vedo quasi più».
Da Vito lei incontrò anche Vasco.
«Mi fece i complimenti per l’Avvelenata, una canzone che non amo. Pensi che con Bertoncelli, quello che “sparava cazzate”, siamo pure diventati amici...».
Bertoncelli è il critico che aveva stroncato «Stanze di vita quotidiana».
«Un disco che ho odiato e tuttora odio. Prima mi imposero un percussionista brasiliano, detto Mandrake, dedito a ogni sorta di stupefacente...».
Lei ha mai provato?
«Sono della generazione dell’alcol, non di quella della droga. E poi marimbe, xilofoni, vibrafoni... Da Londra arrivò un guru, in tunica bianca, con due tabla, i tamburi indiani. L’attacco della “Canzone delle osterie di fuori porta” è suo».
È un attacco bellissimo.
«Ma la musica indiana ha divisioni misteriose: quella è una canzone in tre quarti, il guru era tarato sui 17/28esimi...».
Come nasce Piccola storia ignobile?
«Da tre storie, raccontatemi da tre amiche. Era il tempo dell’aborto clandestino. Lui ti lasciava, ma ti trovava l’indirizzo e i soldi».
E la Locomotiva?
«Una suggestione letteraria, non una rivendicazione politica. In un libro di Romolo Bianconi, “Trent’anni di officina”, lessi di questo personaggio claudicante, che in gioventù si era lanciato con una locomotiva contro un “treno di signori”...».
Ma non era morto? «Lo raccolsero che ancora respirava...».
«No, era sopravvissuto. Me ne parlò anche “Il Pensionato”, il mio anziano vicino di casa in via Paolo Fabbri a Bologna. L’eroe della Locomotiva si chiamava Pietro Rigosi. Ora vorrebbero dedicargli la piazza della stazione di Poggio Renatico, da cui era partito; ma di questi tempi la vedo dura. A Lucca non hanno voluto dedicare una strada a Sandro Pertini...».
Il Pensionato come si chiamava?
«Signor Mignani. Ricordo un Capodanno con gli amici: pensammo che lui era solo, e andammo a portargli una bottiglia. Il giorno dopo ricambiò con il vino che si faceva in casa: buonissimo. La vicina, signora Irene, mi telefonò all’alba, circospetta: “Ho saputo che lei ha fatto una canzone sul pensionato. Mio marito e io preferiremmo non comparire...”».
Lei ha detto al Corriere di non essere mai stato comunista.
«Confermo. Ho una simpatia romantica per l’anarchia, un altro tratto che mi avvicina a De André. Ma ho sempre votato socialista, anche se non ero craxiano».
Non ha mai votato Pci?
«Mai. Avevo il mito dell’America di Roosevelt, non dell’Unione Sovietica. E ho scritto una canzone antitotalitaria sulla Primavera di Praga, che finiva con Jan Palach che bruciava come Jan Hus, mandato al rogo in quanto eretico».
Qui sull’Appennino tanti ex comunisti ora votano Salvini.
«Si vede che non erano davvero comunisti; erano già leghisti senza saperlo. Più sicurezza, meno tasse, cultura poca o niente. La destra può essere più o meno fascista, la sinistra più o meno marxista; la Lega non ha una filosofia».
E i 5 Stelle?
«Hanno la filosofia del momento. Più stomaco che testa. Certo mandare tutti affanculo è una bella soddisfazione. Ma poi?».
Lei abbracciò Prodi all’assemblea del Mulino.
«Ero lì per Ezio Raimondi, il mio maestro al magistero. Prodi è una brava persona. Anche se mi ha causato attacchi da sinistra. Ho anche ricevuto una lettera anonima: “Da quando sei amico di Prodi e di Fazio hai rinnegato La Locomotiva”».
Alle primarie del Pd cos’ha votato?
«Raffaella e io non abbiamo trovato un seggio aperto. Alla fine forse avrei votato per la Schlein. Anche se non mi dispiace Bonaccini, che è di Campogalliano, il paese di mio nonno materno».
La Meloni è una sua estimatrice, l’aveva anche invitata ad Atreju, ma lei non è andato. Perché?
«Ormai mi muovo di rado dalle mie montagne, vuole che lo faccia per andare ad Atreju? Ho gentilmente declinato».
Insisto: perché?
«Perché i fascisti non mi piacciono».
La Meloni non è fascista.
«Ma sento tanti ripetere di lei quello che si diceva di Mussolini: “Il Duce è un genio, sono quelli che lo circondano a rovinare tutto”. Il Duce invece un genio non era; e temo non lo sia neppure la Meloni».
Lei Guccini come la trova?
«Intelligente e timida. E alla timidezza reagisce con una punta di arroganza, come a dire: sono qua. Lo so, perché sono timido anch’io».
È vero che ha conosciuto Papa Francesco?
«Fugacemente. Gli ho recitato il primo verso del Martìn Fierro, il poema nazionale argentino. Avrà pensato che fossi pazzo».
In Bisanzio lei descrive una città «sospesa tra due mondi e tra due ere», in cui non si parlava più greco e latino, ma alamanno e goto.
«Ho sempre sentito il fascino delle lingue a me sconosciute: nel nuovo disco, Canzoni da osteria, canto una strofa di Bella ciao in farsi, in omaggio alle donne iraniane. Anche il nostro è un tempo sospeso tra due ere. Un tornante della storia».
Cosa accadrà all’Italia, al mondo?
«Lascia che facciano. A me basta stare ben coperto, a scrivere i gialli con Loriano Macchiavelli. Ora sto scrivendo racconti».
La morte le fa paura?
«No. Certo, è un bel fastidio: non esserci, non sentire... Però a una certa età ci si stanca anche».
Come immagina l’aldilà?
«Non c’è. Ma sono agnostico, non ateo. Quindi, non si sa mai».