la Repubblica, 10 dicembre 2023
Intervista a Cristiano De André
Storia di un impiegato è il disco più complesso e politico di Fabrizio De André, che nel 1973 indagava gli inganni del potere e il bisogno di utopia, «senza cui l’uomo sarebbe un cinghiale laureato in matematica pura», diceva. A rileggerlo è suo figlio Cristiano, che gli ha rubato il viso, ma è talentuoso cantautore e polistrumentista, al netto dei cognomi. Dal 2018 porta in tourDeAndré#DeAndré. Storia di un impiegato, già documentario, e disco live in uscita il 15 dicembre.
Si chiude un cerchio. Che viaggio è stato?
«Splendido e carico di responsabilità. Il disco ha cinquant’anni ma il potere che denunciava resta, sotto altre forme.
È un’opera che può smuovere ancora. Parla di inutilità della violenza, dell’importanza di passare dall’individualismo alla coscienza collettiva».
Faber partiva dal Maggio francese del ’68, lei ci mette voci del G8 di Genova.
«L’ho scelto per analogia. Il G8 fu l’ultima volta che un fiume di gente, trasversale, ha protestato in Italia».
Quel disco fu criticato da destra e sinistra. Ricorda?
«Il clima era teso, anni di piombo, contestazioni, oscurantismo democratico e deriva della lotta di classe. Fabrizio incitava alla ribellione, ma poi non voleva comandare né obbedire, era un anarchico. Con le canzoni cercava di capire cosa è giusto e sbagliato, non di dare lezioni».
Nicola Piovani compose il tema introduttivo pensando alle dolci campane di Roma che svegliavano Papa Pacelli. Buffo, visto che il risultato fu considerato sovversivo.
«Ironie della sorte. Come il fatto che censurarono La buona novella ma Radio Vaticana lo trasmise. Perché mio padre era un umanista, credeva nell’uomo».
Oggi sarebbe affranto?
«Già lo era, anche se di morire non aveva nessuna voglia. Credo che sarebbe il più depresso al mondo. Si respira aria di dittatura, un odio che certa politica alimenta. Si è persa umanità e compassione verso i più deboli che lui cantava».
Tutti citano De André, forse pochi lo capiscono. Altrimenti…
«Altrimenti vivremmo in un mondo diverso. Avere cultura significa saper identificare l’ipocrisia e definire la bellezza, invece la cultura è diventata un orpello, una gara a chi cita di più, astraendosi dalle parole, che in mio padre sono molto chiare. Sta dalla parte degliultimi, diversi, emarginati».
Dopo Storia di un impiegato, i suoi si separarono. È legato al disco anche per questo?
«Sì, è il ricordo della mia famiglia unita.Verranno a chiederti del nostro amore è una specie di addio a mia madre (Enrica “Puny” Rignon,
ndr).Per me questa è la soglia, il momento prima che mio padre se ne andasse».
Rapporto conflittuale.
«Cominciò a essere buono quando smise di bere, dopo anni di alcolismo. Lo promise a mio nonno sul letto di morte, divenne un’altra persona. Prima era difficile starglivicino, urla, un ottovolante. La storia di un impiegato è anche la mia, contro il potere di un padre».
Ai grandi si possono perdonare le sofferenze che infliggono, in nome dell’arte che producono?
«I geni si permettono di andare oltre. Forse lo sguardo poetico è così alto da dare per scontato ciò che è più vicino. Per me il genio è una persona senza un arto, gli manca qualcosa. L’artista non è cio che scrive, non è l’arte che fa, è colui che attraverso l’arte riconquista quell’arto mancante. Prima di pubblicare, mio padre si dilaniava.
Limava ogni cosa al dettaglio».
Non voleva cantare in pubblico anche per timore di rovinare le parole?
«Per lo stesso motivo si rifiutò di incontrare Bob Dylan. Non sapeva l’inglese e non si fidava del traduttore: e se poi non restituiva la poesia delle parole? Oggi sogno di far cantare De André a Dylan, ma non riesco a contattarlo».
Lei vive a Portobello, in Sardegna. Lì passarono anche Paolo Villaggio, Walter Chiari, Ugo Tognazzi.
«In questo salotto è nata parte della commedia italiana: Tognazzi provava le battute di Amici miei e cucinava, qui ispirò a Marco Ferreri la torta deLa grande abbuffata. Il primo Fantozzi lo sapevo a memoria prima che uscisse».
Nella stessa casa Faber e De Gregori collaborarono in Volume 8.
«Francesco qui scrisse anche
Buonanotte fiorellino. La frase diRimmel “Chi mi ha fatto le carte/ mi ha chiamato vincente” è riferita a mia madre, donna sensibile, streghetta in senso buono. Gli lesse le carte davanti a me, dove sono seduto».
Com’è che i migliori sembrano concentrati tutti in quegli anni?
«Perché la bellezza si divulgava, si spargeva cultura. Pasolini andava in tv, dove oggi non entrerebbe.
Fermentava la voglia di migliorare il mondo insieme».
Il padre di Giulia Cecchettin, al funerale, ha citato la Canzone del maggio. Che effetto le ha fatto?
«Mi ha emozionato immaginare che Giulia e famiglia ascoltassero De André. Sono fortunato perché il pubblico che viene ai concerti è fatto di famiglie belle, che stimolano i figli a capire concetti importanti.
Bisogna avere valori alti per non perdere la bussola. Ecco perché farò presto un nuovo progetto su mio padre, oltre a cose mie. È un appiglio nel vuoto esistenziale, un antidoto».