la Repubblica, 10 dicembre 2023
In Giappone hanno paura di parlare al telefono
TOKYO – In Giappone la chiamano la «generazione silenziosa» (muon-sedai ) e racconta la fascia dei venti e trentenni che detesta le conversazioni telefoniche, che va in ansia al solo pensiero di rispondere e parlare dentro a un ricevitore. Visto da fuori, quello giapponese, appare già di per sé un popolo che non spreca parole ma tende piuttosto a risparmiarle, anche a costo di dire poco o nulla di sé. L’ennesimo sondaggio, compiuto questa volta da una società specializzata in risposte automatiche basate sullo sviluppo dell’IA (la Soft-Two Co. Ltd.) ha rilevato, o meglio ha ribadito, come oltre il 70% dei giovani tra i 20 e i 30 anni soffra di una forma di «fobia verso il telefono», riportando così al centro della discussione nazionale su giornali, riviste e approfondimenti Tv, la questione su come stia cambiando il rapporto dei giapponesi con la tecnologia e su come stia evolvendo questa stessa relazione nel passaggio tra la generazione dei nonni e dei genitori a quella dei figli e dei nipoti, sia in ambito lavorativo che privato.
Dopo vent’anni di vita continuativa in questo paese, sono ormai abituata a un paesaggio urbano in cuile persone fanno un uso abbondante del cellulare ma non lo sfruttano mai per parlare e, men che meno, per inviare messaggi vocali. Credo, senza rischio di esagerazione, d’essere l’unica persona che conosco a farne uso in Giappone, fatta esclusione per gli amici stranieri.
Nel Sol Levante la voce scende in campo nell’incontro dal vivo o nell’appuntamento al computer e, solo raramente, le si affidano chiacchiere telefoniche e comunicazioni informali. È un dato che tuttavia non deve stupire, qui dove la messaggistica istantanea di software come Line è preponderante e tanto meno popolari sono invece i social network, anche per via del maggiore senso di privacy della popolazione. Parlare per strada assomiglia al mangiare per strada, azione che, in Giappone, è concessa solo in vie precise (quelle dedicate allo street food): è ritenuto volgare in quanto causa disturbo agli altri, sia a livello acustico sia per l’abbassamento dell’attenzione che viene assorbita dalla conversazione. Nello spazio pubblico, per quanto all’aperto, non è del resto consentito neppure fumare e, benché telefonare non sia vietato, capita raramente di vedere qualcuno parlare con gli auricolari o l’apparecchio premuto sull’orecchio.
Nonostante risalga solo a un anno fa il primo significativo calo demografico avvenuto dal 1975 nell’area della capitale giapponese, l’anello della prefettura di Tokyo conta oggi 14,110,733 persone mentre, accogliendo nel conteggio anche le prefetture limitrofe di Kanagawa, Chiba e Saitama, che sono abitate in buona parte da pendolari, il censimento della popolazione sale a quasi 36 milioni. Eppure, o forse proprio per questo, salendo sui treni, sullemetropolitane e sugli autobus non accade mai di cogliere qualcuno parlare al cellulare. È un divieto dettato innanzitutto dal buon senso per cui le lunghe tratte a bordo dei convogli si tramutano in una sorta di tempo sacro che ognuno ha diritto di sfruttare come preferisce (dormire, leggere, giocare, lavorare, rilassa rsi, pensare), motivo per cui è anche raro che qualcuno ceda il posto a un altro, anziano o bambino che sia.
Ma cos’è che, in ambito lavorativo, mette invece in crisi i giovani giapponesi rispetto al prendere il telefono e parlare? «Mi prende l’ansia quando squilla e devo rispondere», «Non so cosa aspettarmi dall’altra parte», «Io stesso non so se, chiamando, rischio di disturbare. Non posso immaginare cosa stia facendo la persona dall’altra parte»: hanno risposto così, a campione, gli impiegati aziendali, i dipendenti a contratto, i funzionari pubblici, il personale docente e medico, i lavoratori autonomi e part-time a cui è stata posta la questione. Lamentano soprattutto come: «Ciò che si può risolvere con due scambi di e-mail, si trasforma in una conversazione di un quarto d’ora». È soprattutto la perdita di tempo a pesare e l’ansia di non riuscire a comunicare bene con un superiore, incapaci di intercettare i segnali normalmente rilasciati dall’ambiente, quelli che rientrano nella micro-comunicazione del non-detto, fondamentale in Giappone. Ricevere telefonate improvvise significa, inoltre, abbassare il proprio grado di concentrazione.
La generalizzazione, tuttavia, è sempre in agguato. Non è che la «generazione silenziosa» detesti la conversazione tout court: ciò che sta accadendo piuttosto è che si sta sviluppando un nuovo tipo di relazione che attribuisce un profondo valore ai legami ma che, d’altronde, punta a uno stile di lavoro efficiente che minimizzi il dispendio di tempo causato da una conversazione. Meno parole dette = più tem po per sé.
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