La Stampa, 10 dicembre 2023
Intervisa a MAtteo Garrone
In uno dei 75 cinema dove Io, Capitano è stato presentato al pubblico, dopo l’anteprima alla Mostra di Venezia e il Leone d’Argento per la miglior regia, una signora ha avvicinato Matteo Garrone e gli ha detto: «Lei mi piace, perché è un regista spettatore». Ieri, a Berlino, poco prima che iniziasse la cerimonia degli European Film Awards (ultima tappa prima dell’annuncio della short list per l’Oscar al miglior film straniero, il 21), l’autore ci stava ripensando: «È una definizione in cui mi ritrovo».
Cosa vuol dire essere “un regista spettatore”?
«Ogni volta che ho fatto un film mi sono ritrovato ad assistere a qualcosa che era avvenuto davanti ai miei occhi. Ho cercato sempre di essere un intermediario, anche stavolta, girando Io, capitano. Avevo paura di essere un intruso, l’ennesimo bianco borghese che strumentalizza il migrante per raccontarne la storia. Allora ho deciso di fare il film insieme a loro, ai protagonisti, Seydou Sarr, Moustapha Fall, e Mamadou Kouassi che ha vissuto l’avventura nella realtà».
Agli Efa aveva vinto con Gomorra, e con Dogman di cui era stato premiato il protagonista Marcello Fonte. Che cos’hanno in comune i due film?
«Il mio approccio è sempre lo stesso, interrogare e interpretare la realtà. I votanti degli Efa hanno amato, più di altri, i miei film legati a temi sociali. Sia con Gomorra che con Io, capitano sono entrato in contatto con culture diverse dalla mia. Stavolta mi sono spinto più lontano, ho avuto il privilegio di fare il viaggio insieme a chi lo aveva davvero vissuto. Avevo ascoltato questa storia circa 7 anni fa, in un Centro di accoglienza, un racconto che continuava a risuonarmi dentro, un racconto epico che, in fondo, non è troppo lontano da quelli di Robert Louis Stevenson e di Jack London».
In che cosa, invece, sente profondamente diversi Gomorra e Io, capitano?
«Io, capitano è l’unico mio film con al centro un eroe a tutto tondo, senza zone grigie, un personaggio completamente positivo, dall’inizio alla fine. Per questo, forse, è anche il mio film più popolare, capace di raggiungere il pubblico di tutte le età».
È appena tornato dal tour americano, il film è stato accolto da ovazioni a San Francisco, Los Angeles... Qual è stata la reazione che l’ha più colpita?
«In America ho percepito forte l’identificazione con i protagonisti, perché quella è una terra di migranti e in tanti si riconoscono nel percorso di Seydou e Moustapha, che lasciano il loro Paese in cerca di un futuro migliore. Ho sentito marcata anche l’aderenza con il tema della schiavitù moderna».
E in Italia?
«Per me, sono stati importantissimi i commenti degli studenti delle scuole italiane che hanno trovato il film avvincente e che, al contrario di quello che pensavano prima di vederlo, si sono sentiti vicini ai personaggi. Per la prima volta hanno guardato la vicenda dei migranti da un punto di vista diverso, hanno capito che quelli che arrivano da noi sono ragazzi come loro».
Di che cosa potrebbe parlare il suo prossimo film?
«Da ex-atleta potrebbe forse piacermi fare un film sullo sport, che avesse al centro l’essere umano e i conflitti che lo riguardano».
E quale sport sceglierebbe?
«Fino a 18-19 anni ho giocato a tennis, in modo agonistico, mi è servito molto, è stata la mia grande passione, poi ho capito che non avevo più l’età per diventare un campione, e ho smesso. Il tennis è uno sport che ti fa crescere, in cui ti ritrovi solo sul campo. Ho ricordi pazzeschi, compreso quello di aver giocato, a 11 anni, con Borg spettatore. Era venuto a Roma per girare uno spot, lo avevano invitato nel circolo che frequentavo io, alla fine mi regalò la sua racchetta con sopra l’adesivo “B. B.” Casa mia, a quei tempi, confinava con un campo da tennis, andavo sempre in giardino a recuperare le palline finite fuori dal campo».
Ha già in mente una storia?
«Non ancora. Tempo fa avevo chiesto i diritti della biografia di Andre Agassi, Open La mia storia, ma non è stato possibile averli. Lo sport mi commuove sempre, mi succede anche se vedo una semplice corsa di atletica. E comunque, se facessi un film su questo tema, lo affronterei sempre con la mia ottica, senza parlare direttamente di me, ma mettendo qualcosa di me nelle storie che scelgo di raccontare».
Che cosa pensa di Sinner?
«Mi emoziona».
Il cinema italiano è in ripresa, basta pensare al successo di C’è ancora domani, che cosa ne pensa?
«Non ho visto il film della Cortellesi, in questo periodo sono sempre in aereo, più in aria che per terra, però amo il cinema, sono contento di questo risveglio e continuo a pensare che la mia proposta di catalogare le sale cinematografiche con le stelle, come si fa con gli alberghi, potrebbe essere utile per invogliare gli spettatori a frequentarle. Ho una maglietta con su scritto “i film si vedono al cinema”, l’ho indossata tantissimo, l’avrei messa anche agli Efa, ma ho dimenticata di portarla».
Dopo l’amore per il tennis, c’è stato quello della pittura. Dipinge ancora?
«Ho smesso a 26 anni, ma, per il cinema che faccio, la pittura è stata fondamentale. Per riprendere avrei bisogno di tempo, non riuscirei ad essere un pittore da sabato e domenica, per pensare a cose nuove, diverse, ci vogliono anni».
Che cosa le dà il cinema?
«Nei miei film affronto la condizione umana, le sue paure, le contraddizioni, il cinema mi completa, mi realizza, mi fa viaggiare, mi aiuta a conoscere me stesso».