Estratto dell’articolo di Selvaggia Lucarelli per “il Fatto Quotidiano”, 10 dicembre 2023
“IL PADRE DI GIULIA CECCHETTIN È FINITO NEL FRULLATORE MEDIATICO E POLITICO” – SELVAGGIA LUCARELLI: “GINO CECCHETTIN STA TRADENDO UNA SORTA DI PROMESSA INIZIALE, E CIOÈ DI NON TRASFORMARSI NEL VOLTO DI UNA STORIA MA DI OFFRIRE UN MEGAFONO ALLA VOCE DI TUTTE LE STORIE” – “HA APERTO LA PORTA DELLA CAMERA DELLA FIGLIA A VELTRONI E AI FOTOGRAFI, POI SONO ARRIVATI GLI AUDIO DI GIULIA A ‘CHI L’HA VISTO?’, POI GLI SCREEN DEI MESSAGGI DI TURETTA ALLA SORELLA. POI GINO CECCHETTIN CHE ‘MI PRENDO UNA PAUSA DAL LAVORO, STO PENSANDO A UN IMPEGNO CIVICO’. E INFINE LA NOTIZIA DELLA SUA PRESENZA DA FABIO FAZIO” – “OVVIAMENTE, QUALCUNO È ANDATO A CACCIA DEI TUOI SCHELETRI NELL’ARMADIO, E SONO SPUNTATI DEI RECENTI TWEET DI CECCHETTIN A SFONDO SESSUALE NON PROPRIO EDIFICANTI…”
Assisto con sconcerto a una parabola che non avevo previsto, e cioè alla malsana idea del padre di Giulia Cecchettin, Gino, di tradire una sorta di promessa iniziale, e cioè di non trasformarsi nel volto di una storia ma di offrire un megafono alla voce di tutte le storie.
Perché era di questo che ci aveva convinte, all’inizio. Lui e sua figlia Elena avevano scelto di non usare i microfoni voraci delle prime ore per ringhiare e giurare vendetta, ma per parlare di un tema politico e universale. Per parlare di patriarcato. E non hanno usato quel microfono neppure per puntare il dito sul mostro e accusare la famiglia del mostro di qualche imprecisata complicità.
Virtù rara, soprattutto quando si ha a che fare con le lusinghe della cronaca nera, quella che con i parenti rabbiosi costruisce puntate e un’opinione pubblica altrettanto rabbiosa. Ora che un po’ di tempo è passato e tante cose preziose sono state dette, posso confessare che non ho mai creduto che la morte di Giulia Cecchettin sia stata un frutto purissimo della cultura patriarcale.
Ci sono tante sfumature in questa vicenda, c’è un ragazzo di 22 anni che senza Giulia si era avvitato in una spirale di morbosità e depressione, c’era un disagio psicologico che lo aveva convinto a rivolgersi a una specialista, c’era la fragilità identitaria di chi – giovanissimo – sente di non saper gestire il panico dell’abbandono, di non valere nulla senza una fidanzata e prova rancore per l’altra che ha una colpa imperdonabile: anziché sentirsi monca, prosegue dritta per la strada dell’autodeterminazione.
C’è chi dice, legittimamente, che il patriarcato è l’architettura su cui si reggono i rapporti tra generi e che esiste anche dove pensi che non esista, ma questo significa svilire completamente la psicologia e in particolare quella che studia le relazioni, i rapporti fusionali, le dipendenze affettive, l’immaturità sentimentale ed emotiva di chi è molto giovane e si sente completo solo in una relazione.
Poi, certo, tutto questo galleggia da sempre in una società inquinata da secoli di patriarcato, in cui l’uomo – talvolta – vive il rifiuto con un senso di sconfitta intollerabile, ma è evidente che visto il contesto culturale e la giovane età dell’assassino qui il patriarcato c’entri in parte.
La mia sensazione è stata però, fin da subito, che la famiglia di Giulia stesse assolvendo a una funzione. Non importava che non fosse perfettamente a fuoco ogni singola sfumatura di questa vicenda, importava che le vittime collaterali di un fatto di cronaca così drammatico non si lasciassero fagocitare dallo sciacallaggio populista della cronaca nera, che parlassero di femminicidio come di un fenomeno, e non come di qualcosa che riguardava solo loro. Importava che accendessero una luce.
Poi, giorno dopo giorno, l’universale ha iniziato a rimpicciolirsi, a comprimersi come la materia di un buco nero e la storia di tante è diventata sempre più la storia di una, il volto simbolico di Giulia Cecchettin è diventato sempre meno simbolico, la vicenda è diventata sempre più cronaca e sempre meno fenomeno.
Con tutti i rischi del caso perché, come dicevo all’inizio, personalizzare troppo questa vicenda significa non più raccontarla ma lasciare che venga vivisezionata, magari scoprendo, alla fine, che forse la storia ignorata dell’anonima sessantenne uccisa dal marito dispotico perché lei voleva separarsi era più figlia del patriarcato di questa. E però anche meno telegenica, meno notiziabile.
A questo punto bisognerebbe aprire un’altra parentesi, quella che riguarda l’estetica delle donne morte, sui giornali. Più sei giovane, più sei bella, più hai un’aria angelica come Giulia e più la tua morte sarà rilevante, più farà vendere i giornali e accendere la tv.
[…]
Dicevo quindi del padre di Giulia, Gino Cecchettin. Il frullatore mediatico – dispiace dirlo – sta lentamente frullando anche lui, la sua famiglia. La sua voce era diventata piazza, cortei, spazi su giornali e tv dedicati al patriarcato mai visti prima. Ed era giusto così, che quel suo megafono fosse diventato microfono per tante voci autorevoli, soprattutto femminili, che in questi anni si sono dedicate a temi scomodi, spesso considerati futili o pretestuosi. Voci di chi ha studiato il patriarcato, perché per parlare di questi temi, non perdendo autorevolezza e senza lasciarsi cogliere impreparati da chi non aspetta altro, serve cultura. E invece sono iniziate le lusinghe di tv, giornali, giornalisti.
Cecchettin ha aperto la porta della camera della figlia a Veltroni e ai fotografi, poi sono arrivati gli audio di Giulia a Chi l’ha visto?, poi gli screen dei messaggi di Turetta alla sorella, poi la nonna di Giulia promuove un suo libro che “Giulia stava leggendo”, poi Gino Cecchettin che “Mi prendo una pausa dal lavoro, sto pensando a un impegno civico” con tanto di annuncio pubblico ai colleghi su Linkedin. Infine, la notizia della sua presenza da Fabio Fazio.
Ovviamente, siccome lo storytelling classico prevede che non appena decidi di infilarti in questo genere di frullatore qualcuno vada a caccia dei tuoi scheletri nell’armadio, sono spuntati dei recenti tweet di Cecchettin a sfondo sessuale non proprio edificanti e c’è da scommettere che l’operazione di character assassination sia solo agli inizi.
E così, la sensazione è che un uomo armato delle migliori intenzioni sia finito nell’elica del frullatore mediatico e, ancor peggio, politico. E che la politica e la tv, ancora una volta, cerchino di appropriarsi di facce e storie, anziché del valore pedagogico che quelle facce e quelle storie dovevano rappresentare.