Avvenire, 10 dicembre 2023
Con il jazz Goebbels le suonava agli inglesi
In un giorno di sole del 1940 al ministero per la Propaganda del Reich diretto da Joseph Goebbels scoppia un trambusto. Impiegati e funzionari non credono alle loro orecchie: da una stanza si sparge per i corridoi un ritmo sincopato che accompagna le note di un sassofono. Non c’è dubbio, è jazz. Qualcosa non torna e molti si indignano. Non è la musica “negroide” che è stata proibita, la forma degenerata di un’arte ben altrimenti onorata da compositori ariani come Richard Wagner e simili?
Inizia con una movimentata scena di isteria collettiva il romanzo dello svizzero Demian Lienhard Mr. Goebbels Jazz Band (edito in Germania da Frankfurter Verlagsanstalt) dedicato a una vicenda storica reale. L’astuto megafono di Hitler, infatti, dopo averlo denigrato e fatto mettere al bando nel 1935, non esitò a sfruttare lo stile musicale americano per fini propagandistici e allo scopo arruolò il fior fiore dei musicisti jazz tedeschi e non solo. Una vera e propria guerra psicologica condotta con armi come piano-forte, sax, clarinetto e batteria. E diffusa sotto forma di “cabaret politico” attraverso l’emittente radiofonica “Germany calling”, condotta dal collaborazionista irlandese William Joyce, detto Lord Haw Haw. Al gruppo erano affidati il sottofondo e gli intermezzi musicali. “Germany calling” aveva un posto di primo piano tra le emissioni tedesche in onde corte, che erano seguitissime Oltremanica; secondo un’inchiesta condotta dopo la guerra dalla Bbc addirittura da circa un quarto degli ascoltatori britannici. La propaganda si diresse dapprima all’Isola, poi – dopo l’entrata in guerra dell’America nel 1941- anche Oltreoceano. Il gruppo si chiamava “Charlie and His Orchestra”, ma fu conosciuto anche come “Mr. Goebbels Jazz Band”, “Templin band” e “Bruno and His Swinging Tigers”.
L’idea era venuta, verso la fine del 1939, ad Adolf Raskin, pioniere della radio in Germania e responsabile delle trasmissioni segrete di propaganda rivolte, con appositi programmi, a Francia e Gran Bretagna. La guida del complesso fu affidata a Ludwig “Lutz” Templin, violinista e sassofonista, non iscritto al partito, che coinvolse il batterista Fritz “Freddie” Bocksieper, il clarinettista Kurt Abraham, il trombonista Willy Berking. Al gruppo fu aggregato come frontman il cantante Karl “Charlie” Schwedler, un impiegato del ministero della Propaganda. Si trattava di un ensemble di tutto rispetto. La band realizzò cover di brani swing americani, i cui testi venivano sostituiti con altri, redatti dal ministero, che si riferivano al complotto ebraico, al pericolo comunista e mettevano alla berlina Churchill e Roosevelt. Per i musicisti partecipare al gruppo era non solo un lavoro ben pagato, per suonare oltretutgli to la musica preferita, ma anche un modo per evitare di finire al fronte. Cosa che per alcuni membri non durò a lungo. Per sostituire quelli arruolati nella Wehrmacht vennero ingaggiati allora musicisti belgi, olandesi e italiani, come il pianista Primo Angeli, il contrabbassista Cesare Cavaion, i trombettisti Giuseppe Impallomeni, Nino Impallomeni e Alfredo Marzaroli, il sassofonista Mario Balbo. I 78 giri del complesso, divenuto ormai una big band, erano destinati ai territori occupati e ai campi per i prigionieri di guerra. Ne furono prodotti oltre 250, in gran parte perduti.
Nel 1943 i bombardamenti alleati costrinsero la radio a trasferirsi da Berlino a Stoccarda. La band suonò fino alla fine del regime, nell’aprile del 1945 e molti dei suoi componenti presero strumenti e custodie e passarono a suonare per gli Alleati. Nel dopoguerra i destini dei protagonisti di “Germany calling” si separarono con esiti molto diversi. Li ricorda uno per uno Lienhard nelle considerazioni finali. La maggior parte dei musicisti, con alterne fortune, continuò a muoversi nell’ambiente artistico. Lord Haw Haw, che nella narrazione ha un ruolo e uno spazio notevole, fu invece impiccato nel 1946 a Londra per alto tradimento.
Da notare la particolarità strutturale del romanzo che usa lo stratagemma del dattiloscritto ritrovato e diventa anche una sorta di riflessione sullo scrivere e sull’autorialità. Le suddette considerazioni finali, infatti, sono firmate da Lienhard come editore del testo, opera incompiuta di uno scrittore zurighese, Fritz Mahler ( nomen omen). Incaricato dal ministero di scrivere un libro sulla jazz band, diventa contemporaneamente autore e personaggio, conducendo il lettore in un periplo tra i cabaret della capitale e dando così uno spaccato della swinging Berlin che ricorderebbe anni Venti, se non fosse per gli allarmi aerei.
Il gioco di specchi tra autori e pseudonimi non finisce qui, ma non vi indugiamo oltre. Il virtuosismo, carico di ironia, è comunque a servizio di una narrazione che scorre ben ritmata e, per restare nella metafora, scritta in un tedesco musicale. Lienhard, archeologo di formazione – che per realizzare il romanzo ha scavato molto, viaggiando tra Berna, Berlino, Londra e Galway, la città irlandese dove Joyce, nato negli Usa, è cresciuto – non a caso ha vinto nel 2020 lo Schweizer Literaturpreis con la sua opera prima, Ich bin die, vor der mich meine Mutter gewarnt hat (“Io sono colei da cui mia madre mi ha messo in guardia”) sul mondo della droga in Svizzera tra anni Ottanta e Novanta. E anche quest’anno è arrivato nella cinquina finale con Lord Haw Haw e i jazzisti di Goebbels