Avvenire, 10 dicembre 2023
Tatuaggi, tabù rotto dalla moda del Giappone
Era il 1 aprile 1862 quando Alberto, figlio della regina Vittoria, futuro re Edoardo VII annotava sul proprio diario di essersi fatto tatuare. Ventunenne scapestrato, modaiolo e libertino, aveva intrapreso per volere della madre un pellegrinaggio formativo e spirituale nei luoghi santi di Egitto, Siria e Palestina, come si confaceva a un erede al trono. A sorpresa il Principe di Galles si fece tatuare una croce di Gerusalemme sul braccio, come del resto era consuetudine tra i pellegrini cristiani in Terrasanta e in altri luoghi sacri, compreso Loreto, in Italia, già dalla fine del Cinquecento. Si trattava di una pratica di devozione e spiritualità che per taluni era anche una sorta di souvenir, apprezzata da una moltitudine di viaggiatori soprattutto aristocratici. Anni dopo anche il futuro Giorgio V, che di Edoardo VII era figlio, era tornato da un viaggio in Giappone con un drago sul braccio. Niente di così scandaloso come si può pensare.
«A fine Ottocento in Occidente ormai il tatuaggio aveva iniziato a filtrare nella cultura dominante», spiega Matt Lodder, docente di Storia e teoria dell’arte all’Università dell’Essex, tra i più importanti esperti di storia dei tatuaggi, e autore di una voluminosa ricerca, Corpi dipinti (pagine 378, euro 29,00) pubblicata da Il Saggiatore. «Fu l’apertura del Giappone nel 1853 a stimolare la crescita del tatuaggio professionale in Nord America, in Gran Bretagna, nell’Europa occidentale. L’interesse per tutto ciò che era giapponese negli ultimi decenni dell’Ottocento rese finanziariamente possibile gestire attività di tatuaggio nei porti e nelle principali città così da soddisfare la domanda crescente di avventori facoltosi alimentata dal consenso sociale offerto dal patrocinio di reali, esponenti dell’alta società e soci dei club». E dire che solo qualche decennio prima, in epoca georgiana e vittoriana, di tatuaggi si parlava in termini di devianza, appannaggio di ladri e delinquenti, carcerati, ricercati e disertori. In realtà, spiega Lodder, la gente ordinaria si tatuava fin dal Settecento anche se non si trattava di una pratica cui si dava pubblicità, realizzata a porte chiuse e il risultato restava ben nascosto sotto gli abiti. Incisioni e tatuaggi apparivano invece quasi sempre nelle prigioni e nei tribunali, una costante nei rapporti su marinai e tipi sospetti, e nei verbali sui criminali. Ovvio che l’immaginario pubblico ne venisse condizionato.
È una storia che svela strabismi e fraintendimenti sui tatuaggi quella che Matt Lodder indaga, abbracciando oltre cinquemila anni di storia dall’alba dell’umanità agli inizi del XXI secolo. E lo fa esattamente come altri storici dell’arte fanno studiando le opere dell’antichità non per la loro bellezza ma come punti fermi per decifrare il passato, la nostra storia e noi stessi. Dunque quella che ci offre Lodder non è una storia del tatuaggio, ma la storia letta attraverso le storie di persone tatuate di epoche e luoghi diversi. A legarle l’idea «che possiamo comprendere persone, luoghi e momenti nel tempo osservando i segni permanenti che gli esseri umani realizzano sulla propria pelle e le reazioni altrui a questi segni». Perché aggiunge Lodder, che ha tatuaggi sul 70 per cento del corpo, «il tatuaggio è un mezzo e non un fenomeno». Il fatto è che li si continua a vedere come segni di ribellione e devianza o semplici curiosità. Sono ventuno le storie raccolte in questo libro (venti più quella curiosa della bisnonna di Lodder): troviamo Oetzi, l’uomo dei ghiacci, con i suoi 61 tatuaggi, principesse siberiane, patrioti della Cina moderna, donne inuit, milionarie eccentriche, stiliste degli anni’30, soldati, star della musica e tanti altri. Storie collegate spiega l’autore – non solo perché hanno a che fare con l’inchiostro nella pelle, ma perché ciascun tatuaggio è indice di qualcos’altro. I tatuaggi sono un patrimonio culturale intangibile. Rivelazioni sull’esperienza umana, punti d’ingresso nella storia.