La Lettura, 9 dicembre 2023
Sul Prometeo di Nono
Agli inviati dei giornali che nel settembre del 1984 andavano a bussare al portone della chiesa sconsacrata di San Lorenzo a Venezia per farsi raccontare il suo nuovo e attesissimo Prometeo. Tragedia dell’ascolto, Luigi Nono (1924-1990) spiegava prima di tutto ciò che quel progetto non era: «Non è un’opera, non è un melodramma, né una cantata scenica, né un oratorio, né un concerto. È una tragedia composta di suoni. Una follia immaginifica, come quella dell’Orlando furioso».
Il compositore aveva scritto la partitura per solisti vocali e strumentali, coro misto, 4 gruppi strumentali e live electronics e la stava allestendo per la Biennale Musica (allora diretta da Carlo Fontana) in quell’ex convento di clausura per la prima mondiale del 25 settembre. Vi erano coinvolti, fra gli altri, Claudio Abbado, Renzo Piano, Massimo Cacciari, Emilio Vedova, Heiner Müller, Stefano Scodanibbio, André Richard. Era (ed è) una Tragedia dell’ascolto (la felice definizione è di Massimo Cacciari), che rivisita uno dei miti più antichi dell’umanità, quello di Prometeo: «È – nelle parole del compositore – l’uomo con l’ansia perenne di nuove terre e frontiere. Che si ribella alla restaurazione culturale che ritarda l’avvento di nuove epoche». Nella chiesa di San Lorenzo, dove è sepolto il compositore Gioseffo Zarlino (1517-1590) da Nono stesso ammirato, dal 26 al 29 gennaio verrà ora riallestito il Prometeo (nella scheda i dettagli) . La non-opera del compositore di cui il prossimo 29 gennaio ricorrerà il centenario della nascita è uno dei capolavori della seconda metà del ‘900, un ponte verso il futuro, che porta in scena, oggi come allora, 79 esecutori, distribuiti su una partitura di ben 512 pagine: l’ultima edizione critica, del 2017, è di Ricordi, a cura di Marco Mazzolini e André Richard.
Il lavoro appartiene all’ultimo periodo di Nono, quando il compositore aveva abbandonato le tematiche politiche per (ri)abbracciare un pensiero filosofico-esistenziale. A quarant’anni di distanza dalla prima, l’opera risuona ancora di sconcertante modernità: «la Lettura», per provare a inquadrarla, ha parlato con tre dei musicisti/solisti che parteciparono a quell’avventura e che ci saranno anche in questa edizione. Sono stati fra i più stretti collaboratori di Nono: il flautista Roberto Fabbriciani (1949), il trombonista Giancarlo Schiaffini (1942) e il regista del suono Alvise Vidolin (1949). Alla loro, «la Lettura» ha aggiunto la voce del direttore d’orchestra Marco Angius (1969), il maestro che più ha diretto e inciso l’opera di Nono e che ora sarà alla guida dell’Orchestra di Padova e del Veneto. Accanto, importanti solisti: Carlo Lazari (viola), Michele Marco Rossi (violoncello), Emiliano Amadori (contrabbasso); le voci di Rosaria Angotti, Livia Rado, Chiara Osella, Katarzyna Otczyk, Marco Rencinai, e quelle recitanti di Sofia Pozdniakova e Jacopo Giacomoni, oltre al Coro del Friuli Venezia Giulia.
È con Angius che iniziamo la nostra esplorazione su questo lavoro che si concentra sul suono e sul suo contrario. «Una delle novità di Prometeo — specifica il maestro – fu che il pubblico non assisteva a un evento, ma ci stava immerso dentro, accerchiato da voci e strumenti secondo una disposizione multipla che trova un celebre antecedente solo in Gruppen (1955-57) di Karlheinz Stockhausen (1928-2007, ndr)». Dal punto di vista della struttura, progettata per la prima assoluta da Renzo Piano, Prometeo, nel suo insieme veniva metaforicamente paragonato a un’arca, che attraversava isole all’interno di un arcipelago. Invece il nuovo spazio ora creato per il riallestimento da Antonino Viola e Antonello Pocetti – e che per naturali esigenze di sovrintendenza non può essere identico a quello di Piano – spiega Angius «richiama l’antica tradizione veneziana tardocinquecentesca dei compositori Andrea e Giovanni Gabrieli (1510-1585 e 1557-1612), cara a Nono, per la quale il suono arrivava dall’alto e il pubblico in ascolto non poteva facilmente identificare la sorgente sonora da cui proveniva».
«Negli anni in cui ho lavorato con Nono, dal 1980 fino alla scomparsa – racconta Giancarlo Schiaffini – lui cercava di ricreare sempre quel suono, che doveva venire da varie angolazioni, come accadeva in San Marco a Venezia. Riusciva a ottenerlo altrove tramite l’utilizzo dell’elettronica. Ma non si accontentava: una volta a Berlino Est, nel Palazzo del Governo, non gli andava bene l’acustica dell’auditorium, per cui abbiamo girato tutto l’edificio e alla fine scelse un pianerottolo che rifletteva meglio i suoni. A Torino invece, per lo stesso motivo, optò per la palestra di una caserma dei carabinieri...».
Parlando di Prometeo, va sottolineato il concetto di teatro invisibile (è tutto nel suono) e della natura teatrale dei testi curati da Massimo Cacciari, che secondo Angius «diventano rinuncia a ogni genere di formula visiva»: il primato va all’orecchio. Torna in mente la saggezza di Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), che sosteneva: «Se brami vedere, ascolta. Sentire è un passo verso la visione». Cacciari per Prometeo scelse frammenti (si riascolteranno identici in questo riallestimento) da Walter Benjamin (Sul concetto di storia), Eschilo (Prometeo incatenato), Euripide (Alcesti), Johann Wolfgang von Goethe (Prometeo), Erodoto (Storie I, 32 ), Esiodo (Teogonia), Friedrich Hölderlin (Schicksalslied e Achill), Pindaro (Nemea, VI), Arnold Schönberg (Das Gesetz e Moses und Aaron) e Sofocle (Edipo a Colono). Nono decostruisce i testi («Devono essere sentiti e percepiti attraverso i gruppi orchestrali»)
Il compositore puntava dunque sulla forza espressiva della parola, non sulla sua messa in scena. È come se avesse voluto andare alle origini della voce e dell’unione fra voce e strumenti. Sostiene Alvise Vidolin: «Prometeo diventa oggi un simbolo contro la tendenza attuale della musica in cui domina l’effetto visivo e l’ascolto risulta subordinato». Non solo: «In tutti i concerti di musiche contemporanee di autori diversi che ho eseguito in tanti anni, un pezzo di Nono è sempre risultato quello più vivo, non ha mai accusato il peso del passare del tempo».
A partire dal 1980, Nono iniziò a sperimentare nuove strade per il suono lavorando all’Experimentalstudio della Heinrich Strobel-Stiftung del Südwestfunks di Friburgo, in Germania, dove approfondì lo studio dell’elettronica dal vivo. Roberto Fabbriciani ricorda che «era il ’78 quando Nono mi chiese un incontro per parlarmi di una collaborazione, senza però avere un progetto preciso. Cercava semplicemente nuove idee per rinnovare il suo cammino compositivo». Sottolinea Vidolin: «Nono er aun uomo del dubbio più che delle certezze. Ma il suo era un dubbio creativo: vagliava molte possibilità e poi, fra tutte, ne sceglieva una che però usava magari solo per una determinata esecuzione di un brano e per quella successiva ne sceglieva un’altra ancora».
Fabbriciani continua il racconto: «Gli facevo ascoltare suoni con nuove tecniche strumentali e volevamo provarle con l’ausilio di macchine appositamente concepite. Dopo esperimenti allo Studio di Fonologia di Milano, andammo a Friburgo, dove c’erano macchinari più innovativi, che permettevano di elaborare il suono e di spazializzarlo. Stavamo entrando più che mai nel concetto di spazio. Facevamo cose inaudite, inudibili, fuori da qualsiasi prassi esecutiva: fu un momento straordinario». Il compositore avrebbe poi approfondito il tema con studi sulla percezione insieme al tedesco Hans Peter Haller (1929-2006), pioniere della musica elettro-acustica, che fu uno dei registi del suono per Prometeo.
Nono era entrato in una nuova fase creativa verso il silenzio e la rarefazione: andava alla ricerca di una musica che aveva bisogno di nuovi spazi, lontani da quelli tradizionalmente ad essa adibiti. E, grazie all’amico Cacciari, si appassionò soprattutto alla figura di Walter Benjamin e – sono parole di Angius tratte dal suo libro Riverberazioni. Suoni e controsuoni del Novecento (Il poligrafo, 2022) – «al rigetto di una concezione storicistica divisa in categorie e periodi musicali», che ha fatto sì nella sua ricerca potesse affiancare le musiche di Bruno Maderna (1920-1973), suo insegnante, a quelle di John Dunstable (1390– 1453), di Guillaume de Machaut (1300–1377) o di Adrian Willaert (1490–1562). Per questo, e tanti altri motivi, la musica di Nono – solleva metaforicamente le spalle Fabbriciani – «cambia ogni volta, si rinnova da sola, ti sorprende sempre e comunque».
Vidolin entra più nello specifico dentro la partitura del Prometeo e spiega che «la cosa più facile da sbagliare nell’esecuzione sono le dinamiche, perché Nono portò la sua musica in una dimensione di ascolto molto subliminale, non per un vezzo, ma perché dal punto di vista timbrico, il suono, nella sua dimensione dei pianissimi ha una sua vitalità interna. È come quando osserviamo le cose al microscopio: guardiamo un mondo che in realtà è molto più ricco di quello che normalmente riusciamo a vedere. Ed è così anche per il suono. Quando si entra nella dimensione del piano e del pianissimo ci sono una serie di sfumature, di elementi, che cambiano la nostra percezione. Nono, attraverso l’uso del microfono riusciva a cogliere elementi che normalmente ci sfuggono, ha esplorato un mondo e lo ha portarlo al nostro udito in maniera nuova e affascinante». Angius aggiunge che «la sfida maggiore è legata agli equilibri fra i suoni scritti da Nono. Il rischio è che le sorgenti sonore, ovvero quattro formazioni orchestrali, il coro, le voci degli attori e dei solisti, possano confondersi. È fondamentale rendere percepibili i diversi piani sonori concepiti da Nono, perché man mano che l’opera va avanti è come se perdesse pezzi. Prometeo è una sorta di imbuto: comincia con tutte le forze in campo, in maniera quasi apocalittica, poi via via l’energia diminuisce costantemente. Mi ricorda certe scene dal film Solaris (1972, ndr) di Andrej Tarkovskij in cui il senso del tempo è percepito come qualcosa di mentale più che reale. L’opera finisce in senso cameristico, le orchestre sono le prime a smettere di suonare, poi smette il coro, poi restano solo i solisti, 6 strumentali e 6 vocali, che si alternano. Il finale di Prometeo è un pezzo di musica da camera, come se fosse un madrigale concertato, ma in senso moderno. Il canto di Nono è silenzioso, inudibile, innere Stimme (voce interiore, ndr) del sentire tragico».
Ma cosa accadde dopo quella prima esecuzione assoluta? Fabbriciani ricorda: «Ho camminato con Nono quasi tutta la notte per Venezia, talmente tanta era l’adrenalina che avevamo in corpo per il traguardo raggiunto. Non ci eravamo nemmeno resi conto che Prometeo alla fine fosse durato molto più di quanto avessimo previsto, ben tre ore e mezza (a gennaio a Venezia la durata sarà di due ore e un quarto, ndr). È una musica che ti porta lontano dal tempo reale, ti fa perdere la sua dimensione». Per il pubblico della prima, seduto e spaesato a vedere le orchestre e i solisti che erano sopra di loro, con i suoni che arrivano da ogni parte, l’effetto fu straniante. Un consiglio per il pubblico che verrà? Risponde Vidolin: «Dominati dal telecomando televisivo, appena non accade nulla, cambiamo subito canale. E invece quello che dobbiamo cambiare è il nostro tempo interiore: la musica non va subita, la musica chiede disponibilità verso un ascolto attivo, che ci coinvolga».
Un ricordo della prima del 1984? «Posso?», ride, Giancarlo Schiaffini: «Alla fine della Tragedia dell’ascolto uscimmo Nono ed io e di fronte alla chiesa, non l’avevamo mai notato prima, c’era un negozio di Amplifon...».